PERSONAGGI
ETERNI – 1 -
Li
trovi in tutti i paesi della collina. Almeno uno per comune. Siccome
la collina comasca è un microcosmo ben rappresentativo dell’Italia,
sicuramente sono presenti in tutti gli anfratti del Bel Paese. Basta
scavare, senza andare troppo in profondità, e li scovi. Non sto
parlando di tartufi ma dei nostalgici di Mussolini. Un numero esiguo
di adepti, ma capillarmente diffusi e granitici nella scelta
ideologica anche se con differenze nel rito adulatorio. Fra i vari
tipi che conosco ne estrapolo tre, rappresentativi dei diversi gradi
di nostalgia. Cominciamo con Carlo Scereda: è un valtellinese grande
e grosso con una barba ispida che con il passare degli anni diventa
sempre più color sale e pepe. Da buon montanaro ha conservato il
rito ancestrale di macellare un maiale alla fine di dicembre e, dopo
la visita ispettiva, non tralascia mai di tentare di ingozzarmi con
il suo lardo, “meglio di quello sopravvalutato di Colonnata”, o
con la grappa spremuta dalle sue vinacce, diversa ogni anno ma con la
caratteristica costante di avere una gradazione alcolica superiore ai
50 gradi. Durante una di queste degustazioni, più imposte che
apprezzate, mi accorsi che le pareti del locale erano tappezzate di
foto del Duce, degli idrovolanti di Cesare Balbo, di cartine
geografiche dell’Africa Orientale Italiana, dei Savoia. Non ho
perso l’occasione di stimolarlo con un “nostalgico, eh?” ed
alla sua risposta affermativa gli ho contestato “ma cosa ci fa la
facciona del Duce vicina a quella del Re Vittorio Emanuele III? Alla
fine della storia, si sono trovati su sponde opposte”. Il Carlo
Scereda mi disse “sì, è vero, può sembrare un controsenso, ma io
ho voluto rappresentare la storia d’Italia, con le sue ombre ed i
suoi successi, io simpatizzo per Benito, ma non posso dimenticare i
Savoia che hanno fatto l’Italia”. Ragionamento con una sua
logica, la storia dell’Italia contemporanea non è iniziata il 25
aprile del 1945 ma nell’Ottocento, nel Sud -Est della Francia, fra
la Nizza di Garibaldi e la Savoia che ci diede la dinastia dei futuri
Re d’Italia. Si può dire che la nostalgia di Scereda è di tipo
storico, certamente mussoliniana, ma si tratta di una nostalgia
inglobata in un culto della storia d’Italia, dal Risorgimento in
poi, fino alla seconda guerra mondiale e con l’esclusione della
storia recente, come se l’Italia fosse finita nel 1945 a Piazzale
Loreto, con il Duce appeso a testa in giù. E’ una caratteristica
comune a tutti i mussoliniani quella di non avere un buon giudizio
sull’Italia contemporanea. Non ce l’ha il secondo rappresentante
della categoria, il Cimabue. E’ questi un artigiano, ramo
meccanico, che con il suo lavoro, partendo dal basso, ha costruito un
piccolo impero. Sulla sua scrivania troneggia un busto di Mussolini.
Non faccio fatica a riconoscere che si tratta della riproduzione
dell’opera di Adolfo Wildt. Sì, proprio lo scultore che ha
scolpito il monumento ai caduti troneggiante nella bella Piazza
Libertà di Appiano Gentile. Wildt rappresenta il Duce come un antico
condottiero romano, lo sguardo severo e rivolto lontano, verso
l’infinito o verso le conquiste da compiere per la gloria di Roma.
Se non sbaglio la scultura si chiama proprio Dux, per togliere
qualsiasi dubbio nell’identificazione fra Mussolini e le guide
della Roma imperiale e caput mundi. Al nostalgico Cimabue non
interessa la Città Eterna, è un lombardo meticoloso e operoso che
non è mai uscito dalla sua regione, il suo idolo è il Mussolini che
faceva arrivare in orario i treni. Non c’è da stupirsi perché
Cimabue è un uomo d’ordine, basta guardare la sua officina, pulita
e luccicante, il suo ufficio organizzato, la sua stessa tuta senza
macchie d’olio. Non può piacergli quest’Italia caotica e
disordinata, lui vorrebbe che l’Italia girasse come la sua fabbrica
e, non credendo ciò possibile, si attacca al mito del dittatore che
tutto regola. In Mussolini appunto. L’unico che avrebbe potuto
farcela a forgiare gli Italiani con la stessa pasta con la quale è
fatto Cimabue. Non so se Cimabue si troverebbe in sintonia con il
terzo prototipo di nostalgico, Valerio. Qualche volta mi toglierò lo
sfizio di verificarlo, anche se mi trattiene la paura di dover fare
da paciere fra i due: un intermediario che rischia di prendere botte
da entrambi i contendenti. Valerio, dicevo, anzi il Camerata Valerio:
quando lo chiamo così si irrigidisce sull’attenti, tende il
braccio destro ed urla uno stentoreo “Presente”. Il suo mito è
un Mussolini diverso da quello vincente raffigurato da Wildt, è il
Mussolini magro e cupo della Repubblica Sociale Italiana. Valerio
vede nella RSI il ritorno al vero fascismo rivoluzionario che perse
lo slancio con la conquista del potere e il conseguente
imborghesimento. Sia Cimabue che Valerio idolatrano lo stesso idolo,
però il Mussolini di Cimabue è il dittatore che con mano ferma
guida la nazione mentre il Mussolini di Valerio è il rivoluzionario
che mette sottosopra l’Italia. Hanno la stessa divinità da adorare
ma non potrebbero essere più distanti. E mentre la nostalgia di
Cimabue non gli ha impedito di realizzarsi e di partecipare, seppur
non amandola, alla vita dell’Italia attuale quella di Valerio è
invece una nostalgia rancorosa ed autoescludente. Valerio rappresenta
lo sconfitto che non vuole accettare il verdetto inappellabile della
Storia. Parlare con lui vuol dire tornare a quegli anni tragici, dal
1943 al 1945, come se fossero anni appena trascorsi. I suoi discorsi
sono pieni di parole come “onore”, come “rispetto della parola
data”, come “noi repubblichini abbiamo riscattato l’Italia che
ha sempre finito le guerre dalla parte opposta a quella d’inizio”.
Valerio sa abbellire, con parole importanti, una sonora sconfitta.
Continuo il ricordare che i repubblichini (è un termine che non ama,
lo trova denigratorio, lui preferisce fascisti repubblicani) sapevano
di andare incontro alla sconfitta ma “meglio andare incontro ad una
bella morte che vivere da vigliacchi”. Vigliacchi, appunto, tutti
quelli non schierati con il Mussolini di Salò, coraggiosi tutti i
fascisti repubblicani e alcuni veri eroi come il Principe Valerio
Junio Borghese, il Comandante della mitica Decima Mas. Valerio
riunisce il culto di Mussolini con quello del Principe Borghese,
questo comandante di sommergibili già distintosi nella guerra contro
le navi inglesi meritando una medaglia d’oro al valor militare.
Valerio sa tutto della Decima Flottiglia Mas, delle imprese in mare e
sulla terra, come era disposta sui vari fronti di guerra, ad Anzio il
Battaglione Barbarigo, sul fiume Senio il Battaglione Lupo, sul
fronte orientale la Divisione Decima. Mi mostra con orgoglio una
riproduzione della bandiera della Decima, un tricolore con al centro
un’aquila che stringe fra gli artigli un fascio littorio. Anche lui
alimenta un piccolo ma costante mercato di simboli della Repubblica
Sociale Italiana. Non per nulla Predappio, il paese natale di
Mussolini, vive anche sul turismo alimentato dai seguaci del suo più
famoso concittadino.
Ecco,
in sintesi, il pensiero dei mussoliniani che conosco, un misto di
attaccamento al passato storico, all’uomo del destino, agli eroi di
guerra e, nella loro diversità, una costante: non amare l’Italia
odierna. Non mi spiegavo questo modo di ragionare fino a quando ho
letto la biografia di Guareschi. Nel libro di Beppe Gualazzini
dedicato all’autore delle storie di Peppone e Don Camillo si legge,
a pagina 19, che il padre di Giovannino Guareschi, Primo Augusto,
aveva “una sua umana Trinità che rispettava come quella divina ed
era composta da Manzoni, Verdi e Napoleone. Nella sua vita volle
recarsi all’estero una sola volta: andò a Parigi e, arrivato alla
Gare de Lyon, si fece portare in tassì agli Invalidi. Qui rese
omaggio alla tomba di Napoleone, poi risalì in macchina, tornò in
stazione e ripartì per l’Italia ignorando del tutto Parigi”.
Cavolo, mi sono detto, ma allora ogni epoca ha avuto i suoi
nostalgici, intendendo per nostalgici tutti quelli attaccati ai miti
dei grandi sconfitti del passato: Napoleone nell’Ottocento e
Mussolini nel Novecento. I nostalgici di Mussolini non sono, quindi,
una stravaganza ma rappresentano bene un determinato tipo storico:
quello di chi, non amando il presente, pensa che il mondo attuale sia
orribile per colpa di chi ha vinto i grandi eventi della Storia. Come
conseguenza parteggiano per gli sconfitti: se questi avessero vinto,
allora sì, il mondo sarebbe tutto un’altra cosa, di sicuro
migliore. Riepilogando, non amano il presente e si rifugiano nel
passato. Il passato visto con gli occhi di chi ha perso.
E
il futuro? Cosa pensano i mussoliniani del futuro? Non gli interessa,
sanno benissimo che il fascismo è inscindibile dal suo creatore e
perciò non tornerà più in Italia. Probabilmente, anche se non lo
ammetteranno mai, non se lo augurano nemmeno: a loro basta vivere nel
mito piuttosto che impegnarsi in un suo ritorno. E poi penso che, se
gli facessi la domanda sul futuro della nostra Italia mi
risponderebbero, da ultimi ed irriducibili fascisti, “del futuro me
ne frego”.
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