martedì 14 agosto 2012


PERSONAGGI ETERNI   – 1 -



Li trovi in tutti i paesi della collina. Almeno uno per comune. Siccome la collina comasca è un microcosmo ben rappresentativo dell’Italia, sicuramente sono presenti in tutti gli anfratti del Bel Paese. Basta scavare, senza andare troppo in profondità, e li scovi. Non sto parlando di tartufi ma dei nostalgici di Mussolini. Un numero esiguo di adepti, ma capillarmente diffusi e granitici nella scelta ideologica anche se con differenze nel rito adulatorio. Fra i vari tipi che conosco ne estrapolo tre, rappresentativi dei diversi gradi di nostalgia. Cominciamo con Carlo Scereda: è un valtellinese grande e grosso con una barba ispida che con il passare degli anni diventa sempre più color sale e pepe. Da buon montanaro ha conservato il rito ancestrale di macellare un maiale alla fine di dicembre e, dopo la visita ispettiva, non tralascia mai di tentare di ingozzarmi con il suo lardo, “meglio di quello sopravvalutato di Colonnata”, o con la grappa spremuta dalle sue vinacce, diversa ogni anno ma con la caratteristica costante di avere una gradazione alcolica superiore ai 50 gradi. Durante una di queste degustazioni, più imposte che apprezzate, mi accorsi che le pareti del locale erano tappezzate di foto del Duce, degli idrovolanti di Cesare Balbo, di cartine geografiche dell’Africa Orientale Italiana, dei Savoia. Non ho perso l’occasione di stimolarlo con un “nostalgico, eh?” ed alla sua risposta affermativa gli ho contestato “ma cosa ci fa la facciona del Duce vicina a quella del Re Vittorio Emanuele III? Alla fine della storia, si sono trovati su sponde opposte”. Il Carlo Scereda mi disse “sì, è vero, può sembrare un controsenso, ma io ho voluto rappresentare la storia d’Italia, con le sue ombre ed i suoi successi, io simpatizzo per Benito, ma non posso dimenticare i Savoia che hanno fatto l’Italia”. Ragionamento con una sua logica, la storia dell’Italia contemporanea non è iniziata il 25 aprile del 1945 ma nell’Ottocento, nel Sud -Est della Francia, fra la Nizza di Garibaldi e la Savoia che ci diede la dinastia dei futuri Re d’Italia. Si può dire che la nostalgia di Scereda è di tipo storico, certamente mussoliniana, ma si tratta di una nostalgia inglobata in un culto della storia d’Italia, dal Risorgimento in poi, fino alla seconda guerra mondiale e con l’esclusione della storia recente, come se l’Italia fosse finita nel 1945 a Piazzale Loreto, con il Duce appeso a testa in giù. E’ una caratteristica comune a tutti i mussoliniani quella di non avere un buon giudizio sull’Italia contemporanea. Non ce l’ha il secondo rappresentante della categoria, il Cimabue. E’ questi un artigiano, ramo meccanico, che con il suo lavoro, partendo dal basso, ha costruito un piccolo impero. Sulla sua scrivania troneggia un busto di Mussolini. Non faccio fatica a riconoscere che si tratta della riproduzione dell’opera di Adolfo Wildt. Sì, proprio lo scultore che ha scolpito il monumento ai caduti troneggiante nella bella Piazza Libertà di Appiano Gentile. Wildt rappresenta il Duce come un antico condottiero romano, lo sguardo severo e rivolto lontano, verso l’infinito o verso le conquiste da compiere per la gloria di Roma. Se non sbaglio la scultura si chiama proprio Dux, per togliere qualsiasi dubbio nell’identificazione fra Mussolini e le guide della Roma imperiale e caput mundi. Al nostalgico Cimabue non interessa la Città Eterna, è un lombardo meticoloso e operoso che non è mai uscito dalla sua regione, il suo idolo è il Mussolini che faceva arrivare in orario i treni. Non c’è da stupirsi perché Cimabue è un uomo d’ordine, basta guardare la sua officina, pulita e luccicante, il suo ufficio organizzato, la sua stessa tuta senza macchie d’olio. Non può piacergli quest’Italia caotica e disordinata, lui vorrebbe che l’Italia girasse come la sua fabbrica e, non credendo ciò possibile, si attacca al mito del dittatore che tutto regola. In Mussolini appunto. L’unico che avrebbe potuto farcela a forgiare gli Italiani con la stessa pasta con la quale è fatto Cimabue. Non so se Cimabue si troverebbe in sintonia con il terzo prototipo di nostalgico, Valerio. Qualche volta mi toglierò lo sfizio di verificarlo, anche se mi trattiene la paura di dover fare da paciere fra i due: un intermediario che rischia di prendere botte da entrambi i contendenti. Valerio, dicevo, anzi il Camerata Valerio: quando lo chiamo così si irrigidisce sull’attenti, tende il braccio destro ed urla uno stentoreo “Presente”. Il suo mito è un Mussolini diverso da quello vincente raffigurato da Wildt, è il Mussolini magro e cupo della Repubblica Sociale Italiana. Valerio vede nella RSI il ritorno al vero fascismo rivoluzionario che perse lo slancio con la conquista del potere e il conseguente imborghesimento. Sia Cimabue che Valerio idolatrano lo stesso idolo, però il Mussolini di Cimabue è il dittatore che con mano ferma guida la nazione mentre il Mussolini di Valerio è il rivoluzionario che mette sottosopra l’Italia. Hanno la stessa divinità da adorare ma non potrebbero essere più distanti. E mentre la nostalgia di Cimabue non gli ha impedito di realizzarsi e di partecipare, seppur non amandola, alla vita dell’Italia attuale quella di Valerio è invece una nostalgia rancorosa ed autoescludente. Valerio rappresenta lo sconfitto che non vuole accettare il verdetto inappellabile della Storia. Parlare con lui vuol dire tornare a quegli anni tragici, dal 1943 al 1945, come se fossero anni appena trascorsi. I suoi discorsi sono pieni di parole come “onore”, come “rispetto della parola data”, come “noi repubblichini abbiamo riscattato l’Italia che ha sempre finito le guerre dalla parte opposta a quella d’inizio”. Valerio sa abbellire, con parole importanti, una sonora sconfitta. Continuo il ricordare che i repubblichini (è un termine che non ama, lo trova denigratorio, lui preferisce fascisti repubblicani) sapevano di andare incontro alla sconfitta ma “meglio andare incontro ad una bella morte che vivere da vigliacchi”. Vigliacchi, appunto, tutti quelli non schierati con il Mussolini di Salò, coraggiosi tutti i fascisti repubblicani e alcuni veri eroi come il Principe Valerio Junio Borghese, il Comandante della mitica Decima Mas. Valerio riunisce il culto di Mussolini con quello del Principe Borghese, questo comandante di sommergibili già distintosi nella guerra contro le navi inglesi meritando una medaglia d’oro al valor militare. Valerio sa tutto della Decima Flottiglia Mas, delle imprese in mare e sulla terra, come era disposta sui vari fronti di guerra, ad Anzio il Battaglione Barbarigo, sul fiume Senio il Battaglione Lupo, sul fronte orientale la Divisione Decima. Mi mostra con orgoglio una riproduzione della bandiera della Decima, un tricolore con al centro un’aquila che stringe fra gli artigli un fascio littorio. Anche lui alimenta un piccolo ma costante mercato di simboli della Repubblica Sociale Italiana. Non per nulla Predappio, il paese natale di Mussolini, vive anche sul turismo alimentato dai seguaci del suo più famoso concittadino.
Ecco, in sintesi, il pensiero dei mussoliniani che conosco, un misto di attaccamento al passato storico, all’uomo del destino, agli eroi di guerra e, nella loro diversità, una costante: non amare l’Italia odierna. Non mi spiegavo questo modo di ragionare fino a quando ho letto la biografia di Guareschi. Nel libro di Beppe Gualazzini dedicato all’autore delle storie di Peppone e Don Camillo si legge, a pagina 19, che il padre di Giovannino Guareschi, Primo Augusto, aveva “una sua umana Trinità che rispettava come quella divina ed era composta da Manzoni, Verdi e Napoleone. Nella sua vita volle recarsi all’estero una sola volta: andò a Parigi e, arrivato alla Gare de Lyon, si fece portare in tassì agli Invalidi. Qui rese omaggio alla tomba di Napoleone, poi risalì in macchina, tornò in stazione e ripartì per l’Italia ignorando del tutto Parigi”. Cavolo, mi sono detto, ma allora ogni epoca ha avuto i suoi nostalgici, intendendo per nostalgici tutti quelli attaccati ai miti dei grandi sconfitti del passato: Napoleone nell’Ottocento e Mussolini nel Novecento. I nostalgici di Mussolini non sono, quindi, una stravaganza ma rappresentano bene un determinato tipo storico: quello di chi, non amando il presente, pensa che il mondo attuale sia orribile per colpa di chi ha vinto i grandi eventi della Storia. Come conseguenza parteggiano per gli sconfitti: se questi avessero vinto, allora sì, il mondo sarebbe tutto un’altra cosa, di sicuro migliore. Riepilogando, non amano il presente e si rifugiano nel passato. Il passato visto con gli occhi di chi ha perso.
E il futuro? Cosa pensano i mussoliniani del futuro? Non gli interessa, sanno benissimo che il fascismo è inscindibile dal suo creatore e perciò non tornerà più in Italia. Probabilmente, anche se non lo ammetteranno mai, non se lo augurano nemmeno: a loro basta vivere nel mito piuttosto che impegnarsi in un suo ritorno. E poi penso che, se gli facessi la domanda sul futuro della nostra Italia mi risponderebbero, da ultimi ed irriducibili fascisti, “del futuro me ne frego”.

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