venerdì 27 aprile 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 7 –
 
            I due uomini, seduti al tavolo d’angolo in fondo al locale del Bar Cigno di Olgiate Comasco, si odiavano. Odio ben dissimulato da un sorriso lievemente accennato che lasciava intravedere i denti bianchissimi nel Napoletano. Odio che trasudava da ogni centimetro di pelle nella faccia scura e tesa di Domenico Collima. Sorrideva il Napoletano, ma pensava “che me tocca fa’ pe’ campà, sopportare sto fetente antipatico” mentre il Collima guardava l’altro con una faccia disgustata, la commessura delle labbra di destra piegata all’ingiù, gli occhi ridotti ad una fessura ma che riuscivano lo stesso a mandare lampi di disprezzo. A differenza di quanto indicava il nome, il Napoletano non era di Napoli ma di Casal di Principe, provincia di Caserta. Aveva il vezzo di ricordare la sua provenienza, la fertile pianura ricavata dalla bonifica dei terreni paludosi intorno al tragitto del fiume Volturno detta Terra di Lavoro, le prime volte che per guadagnare era salito nel Nord dell’Italia. Poi smise, per i frequenti sorrisini ironici, se non di compatimento, che doveva sopportare: per troppi polentoni un terrone non poteva provenire da una Terra di Lavoro, un meridionale non aveva nessun legame con il lavoro. Ma sì, meglio passare per Napoletano, specialmente con questo brutto ceffo che mi odia e non cerca neanche di nasconderlo. Era la prima volta che saliva così a Nord, così vicino alla Svizzera, al massimo era arrivato fino a Saronno o Tradate. Più si sale in Italia e più i polentoni peggiorano, considerò mentre guardava Collima, i compaesani emigrati mi avevano riferito che i comaschi sono chiusi, ma questo qui è più freddo di una lapide di granito. Non sapeva il Napoletano che il Collima non poteva essere preso come prototipo dei comaschi perché egli era inviso anche a questi, la sua impopolarità era talmente elevata e diffusa da rendere impossibile trovare qualcuno che lo difendesse. Già il suo soprannome indicava, senza ombra di dubbio, la negatività del personaggio: Caino. Intendiamoci, non aveva ucciso nessun fratello, anzi non aveva ucciso proprio nessuno, però, omicidio a parte, nel corso della sua ormai lunga vita aveva commesso tutte le nefandezze possibili. Alto e magro, la fronte solcata da rughe e resa ancor più spaziosa da una calvizie che gli aveva ridotto i capelli a due mucchietti incolti sopra le orecchie, un naso leggermente aquilino e due occhi piccoli infossati nelle palpebre, Domenico Collima detto Caino non aveva nulla per suscitare simpatia. Specialmente nei rapporti interpersonali dava il peggio di se stesso. Era diffidente, sospettoso, riteneva che il mondo fosse naturalmente malvagio ed in lotta contro di lui, praticamente impossibile instaurare un dialogo perché qualsiasi cosa detta poteva essere presa come un pretesto per scatenare i suoi sospetti e le sue risposte sgarbate. Si comportava come quei cani timorosi che guardano gli estranei di sottecchi e ringhiano appena questi si avvicinano. Nel corso degli anni si instaurò un circolo vizioso nel quale chi lo conosceva e doveva parlargli, per prima cosa cercava di evitare l’incontro e, quando l’approccio diventava inevitabile, indossava una metaforica corazza pronto alla battaglia mentre l’atteggiamento aggressivo degli interlocutori aumentava in Caino la convinzione che l’astio fosse alla base dei rapporti umani. Come sempre quando il personaggio è notevole, specialmente nei difetti, fiorivano per tutta la collina gli aneddoti. C’era chi faceva risalire l’atteggiamento da cane rabbioso del Domenico ad un’infanzia infelice, ad un padre manesco che prima lo picchiava e poi, forse, si spiegava. Altri, specialmente quelli che lo frequentavano per motivi di lavoro, interpretavano la sua aggressività con il fatto che il Collima fosse un colossale ignorante, che il diploma l’avesse ottenuto per sfiancamento dei professori, stanchi di averlo tra i piedi, che poteva lavorare solo in quel posto pubblico grazie a qualche raccomandazione e l’aggressività serviva semplicemente a mascherare la sua totale incompetenza. Caino non si rendeva conto di essere la causa dei rapporti turbolenti con i conoscenti, anzi si considerava una brava persona costretta a difendersi da un mondo pieno di mascalzoni, a fregare per non essere fregato. Anche adesso cercava di imbrogliare il Napoletano, ma si stava accorgendo di aver a che fare con un osso duro, molto duro. I due non si conoscevano, si trovavano in quel bar per una compravendita di un quadro di un francese, Arman Fernandez, un artista che si dilettava a rappresentare oggetti tagliati e segati oppure rotti o danneggiati. Il quadro che Caino voleva vendere aveva le dimensioni di circa 30 per 40 centimetri e raffigurava un violino tagliato con tagli longitudinali. L’aveva comprato un mese prima da un industriale tessile che si trovava sull’orlo del fallimento, se non già oltre perché, in cerca di liquidi per tacitare la torma di creditori, fu costretto ad accettare l’offerta, di sole cinquecentomila lire, di quello strozzino di Collima. E pensare che l’aveva acquistato sborsando cinque milioni. Caino non amava l’arte, la bellezza di un’opera non lo interessava, il suo orizzonte era solo quello del guadagno. Il nostro personaggio si era specializzato in compravendita di oggetti d’arte, specialmente quadri; non era un collezionista, la sua attività era quella di comprare e rivendere, cercando di azzeccare l’artista con un radioso futuro per guadagnare di più. Arman era uno di questi, perché già negli anni sessanta aveva esposto in tutta Europa ed anche in America, compreso il famoso MOMA di New York. Un artista conosciuto ma con notevoli possibilità di diventare ancor più celebre ora che il secolo stava per terminare. Il quadro valeva  almeno dieci milioni, ma l’ingordo Domenico ne voleva guadagnare perlomeno quindici. Il suo normale giro di conoscenti non era disposto a sborsare una tale cifra, tanto che gli consigliarono di rivolgersi al Napoletano, l’unico disposto a scucire una così grande somma grazie al suo vasto giro di compravendita che interessava tutto il territorio nazionale. Caino non voleva trattare con un estraneo, per di più terrone, però gli attestati di stima del forestiero erano diffusi, cosicché si fece convincere. Con un giro di telefonate organizzò l’appuntamento; scelse un locale frequentato come il bar Cigno e, per evitare sgradite sorprese si fece accompagnare dal Moscerino, un energumeno con un cervello inversamente proporzionale alla notevole stazza e dal quale reclamava un credito. Per sdebitarsi il Moscerino stava seduto nel tavolino vicino a quello di Caino e del Napoletano sorseggiando una birra e controllando tutto quello che capitava nel bar pronto ad intervenire al minimo cenno del Collima. La trattativa languiva, nonostante i due contendenti fossero seduti da quasi un’ora: Caino aveva iniziato sparando una richiesta di venticinque milioni di lire ed ora era sceso a venti milioni, il Napoletano, sempre sorridendo, era rimasto irremovibile su un’offerta di dieci milioni, spiegando dottamente nel suo italiano forbito che questa era la quotazione delle case d’asta e non poteva salire perché non ci avrebbe guadagnato nulla. Collima controbatteva ringhiando che Arman non aveva ancora raggiunto l’apice della sua carriera e certamente la sua valutazione avrebbe raggiunto persino i cento milioni. Dopo altri trenta minuti Domenico scese a diciotto milioni mentre il Napoletano offriva dodici milioni. Finalmente, dopo un’altra mezzora e due plateali tentativi di Caino di abbandonare la trattativa che ottennero solo di far brillare la dentatura perfetta del Napoletano, i due si accordarono sulla cifra di quindici milioni di lire. Lesto, il Napoletano estrasse una busta con i soldi e la diede al Collima; questi, dopo aver inumidito il pollice con la lingua, contò velocemente i biglietti, tutti da cinquecentomila. Trenta biglietti. Di colpo gli passò la gioia di aver ottenuto la somma che desiderava perché la busta già preparata con i soldi esatti significava che quel bastardo di Napoletano sapeva già prima di iniziare che quindici milioni sarebbero stati sufficienti per acquistare il quadro, e allora, pensava Domenico, perché farmi perdere ben due ore quando potevamo accordarci subito. Tipico ragionamento da Caino, come se non sapesse che se il Napoletano avesse proposto immediatamente i quindici milioni, lui non sarebbe mai sceso sotto i venti milioni. Il personaggio era così, pronto a vedere i difetti altrui, mai i propri. Rispose con un grugnito al saluto del Napoletano e non strinse la mano tesa di questi. Il Napoletano rimase con la mano protesa nel vuoto per un istante, poi sospirò e uscì dal bar con il quadro: basta con questa vita randagia – pensò – me ne torno al mio paesello, non ne posso più di ‘sti sfottuti arricchiti, tasche piene ma cervello arido.
Il Moscerino, poiché l’incontro era terminato, chiese a Caino se dovesse accompagnarlo a casa o in banca a depositare la cifra e si prese come risposta un “ma va foera di ball non sei servito a niente, potevo fare a meno di chiamarti, e poi i soldi me li devi ancora tutti, meno centomila lire per il tempo che ti ho fatto perdere”. Il Moscerino avrebbe potuto stenderlo spostando solo un braccio ma lasciò perdere, in fondo era un bonaccione e aveva già troppi guai da non poter rischiare di aggiungerne altri. Si alzò e, senza salutarlo, se ne andò dal bar seguito dagli insulti di Caino: “uhei, farabutto, non saluti chi è più anziano di te, maleducato...” proprio lui gridava, lui che non salutava mai per primo e quasi mai rispondeva a meno che si trattasse di qualche persona importante; in quel caso si sprecava in salamelecchi e comportamenti mielosi. Per associazioni di idee al Collima ricordò un altro che non lo riveriva mai, Andrea detto il Ganasìn, Era questi un suo sottoposto nell’ufficio pubblico dove Caino lavorava: l’ufficio, in verità, era composto da tre persone, tutte e tre diplomate e con pari incarico, però Collima aveva la funzione di responsabile perché era fornito di un maggior numero di anni di servizio. Gli altri due si chiamavano Oreste ed Andrea: Oreste non gli creava nessun problema perché era succube e timoroso del caratteraccio di Caino e, sperando in un miglior trattamento da parte del suo superiore, aveva un comportamento servile ed estremamente ossequioso. Tale comportamento non gli serviva affatto per ingraziarselo, anzi, era deleterio perché Caino era forte con i deboli e debole con i forti e, infatti, trattava Oreste come uno zerbino: calpestandolo. Diverso invece il contegno di Andrea: molto più giovane degli altri due, quando si trovò a lavorare con Caino all’inizio cercò di comportarsi nel migliore dei modi poi, constatando che Collima lo vedeva come un possibile rivale ed era inverosimile andare d’accordo, anzi Caino non perdeva occasione per metterlo in difficoltà, si decise a rispondere colpo su colpo. Iniziò così una guerra infinita con Caino nella parte dell’attaccante ed Andrea sulla linea del Piave pronto a ribattere ogni volta, specialmente con le parole, tanto da meritarsi il soprannome di Ganasin (dal dialettale ganassa che indica una persona superba nell’uso della parola e quindi con la ganascia, o mascella, sempre in movimento) che subito Caino gli appioppò. La situazione degenerò talmente che Andrea, quando si alzava ogni mattina, per prima cosa pensava “chissà che carognata starà preparandomi oggi” mentre nello stesso momento il Collima passava il tempo a studiare qualcosa per mettere in difficoltà quella canaglia di Andrea che neanche lo salutava. Anche ora, seduto al bar mentre mangiava un gelato e con i quindici milioni in tasca, non riusciva a dimenticare il Ganasìn: doveva studiare qualche cosa in fretta per dargli una lezione perché ormai era prossimo alla pensione, mancavano solo due mesi. In realtà Andrea aveva fatto un errore perché aveva ordinato all’economato di Como del materiale di cancelleria senza la firma di assenso del Collima: un erroruccio, vista anche la modesta entità dell’ordine, ma che per Caino poteva essere il grimaldello per costringere i superiori di Como a richiamare Andrea ad un comportamento rispettoso della gerarchia. Sì, lavorando un po’ i dirigenti della sede di Como e facendo passare l’imprudenza di Andrea per un atto d’insubordinazione poteva fargliela pagare cara a quel verme del Ganasìn. Finito il gelato Caino si alzò ed uscì dal locale per recarsi nella banca, posta di fianco al bar Cigno, per depositare i soldi. Appoggiata ad una colonna del porticato che circondava il palazzo del bar, c’era una donna che interpellò Caino con un “mi scusi, signore, potrebbe darmi una mano per arrivare alla mia macchina posteggiata qui sotto, sa, come può ben vedere mi si è appena rotto un tacco di una scarpa”. Se la signora avesse interpellato Caino in un giorno normale, avrebbe ottenuto una risposta del tipo “ma vadi a casa a far la calzetta”, con spregio del congiuntivo e del galateo, ma quello non era un giorno normale, Caino aveva appena fatto un affare nonostante il Napoletano e, forse, c’era una soluzione al problema Ganasìn. Di conseguenza Domenico era ben disposto verso il resto del mondo, certo sempre nei suoi limiti, e quindi borbottò “non dovrebbe calzare scarpe con tacchi da dieci centimetri” ottenendo come risposta uno scontato “dovrebbe sapere che per apparire bisogna soffrire”. In effetti, il palazzo del Bar Cigno è circondato da un porticato diviso dal posteggio sottostante da due ripidi gradini, la donna con un tacco solo avrebbe avuto serie difficoltà a scendere senza l’aiuto del bofonchiante Caino. La signora, appoggiandosi a Domenico e saltellando non poco, raggiunse l’auto, ringraziò l’uomo e se ne andò in direzione Varese. Caino invece si diresse verso la vicina banca meditando sul fatto che la donna avrebbe avuto serie difficoltà a guidare con una scarpa senza tacco. All’entrata dell’agenzia Domenico cercò la busta con i soldi e non la trovò. Fregato. Si era fatto raggirare con un trucco neanche tanto originale. Guardò verso la strada ma l’auto era già sparita oltre il semaforo.
Sarà stato il destino o l’irritazione provocata dal furto dei soldi, due giorni dopo i fatti appena raccontati, due giorni passati alla ricerca affannosa del Napoletano e a maledire chi gli aveva consigliato quel ladro, Domenico Collima detto Caino subì un devastante ictus che lo portò in coma per una settimana. Dopo altre due settimane di ospedale ed un mese di rieducazione in un centro specializzato, per la verità con scarsi risultati, tornò a casa con la paralisi della parte destra del corpo e la totale perdita della parola. Per Caino cominciò una nuova vita passata per lo più a letto o seduto sulla carrozzina. Per sua fortuna c’era la moglie Giannina che lo accudiva. Eh sì, una persona così insensibile era riuscita lo stesso a sposarsi: cosa aveva trovato in lui la Giannina resta un mistero insoluto, mentre era d’altronde talmente evidente il fatto che Caino avesse plagiato la moglie. Infatti, lei era convinta che suo marito fosse uno stimabile galantuomo perseguitato da tutti perché invidiosi della sua bontà. A dimostrazione della sottomissione basta dire che la Giannina considerava un vanto quello di non essere mai stata picchiata da Caino e i continui rimbrotti e villanie subite dal marito, anche pubblici non solo nelle mura di casa, erano dovuti al fatto che lei non era all’altezza dell’intelligenza del marito.  Giannina ragionava così: lui mi tratta male non perché è una carogna ma solo perché io non lo capisco, quindi la colpa è mia. Probabilmente il loro matrimonio reggeva proprio perché Caino concepiva i rapporti umani come una lotta di sopraffazione e la Giannina era tutta contenta di essere sottomessa. Nella disgrazia Giannina si comportò meglio di una crocerossina. Accudiva da sola il marito, per fortuna era di robusta costituzione e riusciva a fare da sola attività sempre difficili con un paralizzato come il passaggio dal letto alla carrozzina, solo per il bagno si faceva aiutare da un’infermiera. Giannina non lo avrebbe mai ammesso, ma sotto sotto la situazione non le dispiaceva: poteva accudire al marito senza sentire le sue lamentele, quel continuo lagnarsi di tutto e di tutti che era stata la colonna sonora della sua vita matrimoniale.
E incominciarono anche le visite dei parenti, dei vicini e dei conoscenti. Queste visite avevano tutte un comun denominatore: la Giannina introduceva i visitatori, nella camera da letto o nel soggiorno a seconda di dove si trovava in quel momento Domenico, a letto o nella carrozzella, spiegava cosa era successo a quel povero marito, il momento dell’ictus, la decenza, la riabilitazione e terminava con l’immancabile “oh povera me, cosa mi è successo, che croce, che croce mi tocca portare”. Poi, se gli ospiti erano comari come lei, passava in rassegna tutti i malati di Olgiate, tutti i pettegolezzi dell’ultimo anno, se invece si trovava a trattare con normali conoscenti dopo un po’ lasciava questi da soli con Caino adducendo sempre scuse del tipo “stia pure qui per qualche minuto con Domenico, non si preoccupi, non disturba, che io ho da fare in cucina”. Cosicché poteva capitare che qualcuno si trovasse da solo con il malato. Alcuni pensavano erroneamente che la perdita della parola si accompagnasse con quella della ragione, invece il Collima comprendeva tutto, quindi parlavano a ruota libera dicendo anche quello che avrebbero fatto bene a nascondere. Fu così che Domenico seppe di essere soprannominato Caino. Infatti, non è raro che il soprannome, quando è azzeccato ed abbia una valenza fortemente negativa, sia conosciuto da tutti tranne che dal diretto interessato. All’inizio Domenico non capiva perché i visitatori usassero questo termine, poi, uno più sveglio degli altri disse rivolto al malato “eh Caino, ma lo sai che la Giannina ti cura proprio bene” e finalmente capì che il Caino era proprio lui. Un borbottio minaccioso uscì dalla sua bocca, gli astanti naturalmente non capirono che non fosse contento del nomignolo.
E venne anche il Moscerino il quale, appena fu lasciato solo dalla Giannina, non perse l’occasione di dirgli, ridendo, “i soldi non te li do più, i soldi non te li do più”. Anche Oreste gli fece visita; aveva chiesto ad Andrea se volesse accompagnarlo ma il Ganasìn rispose, onorando il soprannome affibbiatogli da Caino, “no, non vengo, ci odiavamo, contavo i giorni mancanti alla sua pensione, non ha senso e non tirare in ballo i precetti cristiani, il visitare gli ammalati ed altre menate, odio c’era, odio rimane”. Oreste si comportò come sempre si era comportato con Domenico: in modo untuoso e meschino. Lodò il lavoratore indefesso, il capo premuroso e pieno di consigli. Quando Giannina lo lasciò solo per correre in cucina, cambiò tono e disse “hai visto, tutto il tuo lavorare calpestando le persone a cosa ti ha portato? A guardare il soffitto” e aveva intenzione di passare agli insulti, a spifferare tutto il risentimento trattenuto per anni però gli sembrò che lo sguardo dell’infermo fosse cambiato e gli venne il dubbio che Caino oltre a capire potesse magari anche guarire ed allora farfugliando un saluto se ne andò, dimostrando, anche in questa occasione, di essere un servo.
Tutti questi incontri furono per Caino una conferma di quello che aveva sempre pensato: il mondo è marcio ed in lotta contro di lui, lui Domenico Collima costretto a difendersi per tutta la vita dalla gentaglia che lo circondava. Mai gli passò per la testa che non fosse tanto meglio dei personaggi appena citati, mentre gli rimbombava spesso, nelle lunghe giornate passate a letto, quel soprannome, quel Caino. Dapprima non gli piacque, poi, rimuginandoci sopra, giunse alla conclusione che non fosse sbagliato: in effetti, aveva passato la vita a difendersi dal resto del mondo, da tutti quei falsi Abele sparsi in ogni angolo. Sì, Caino era il soprannome giusto e lui l’aveva onorato per tutta la vita. Sempre, tranne che con quella bagascia con il tacco rotto. Un solo errore, ma pagato a caro prezzo.