PERSONAGGI
DI UN ALTRO SECOLO – 13
Un
modo sicuro per rovinarsi l’esistenza è quello di aver paura delle
malattie. Che bisogno c’è di preoccuparsi di un eventuale malanno
quando si sta bene e si è nel fiore degli anni? Non sto parlando di
chi fa una vita spericolata ma di persone con un modo di vivere
salutare. Pompeo non fuma, non beve, è un buon camminatore, non è
un vorace divoratore di prelibatezze anche se non disdegna la buona
cucina. Ha avuto la fortuna di non avere avuto problemi nel corso
della sua vita, né di ordine fisico né famigliare. Ed adesso me lo
trovo di fronte, mentre lo invito a bere un caffè, che mi risponde
“no, grazie, ma ho la tachicardia, al massimo mi prendo un
decaffeinato”. L’altro giorno aveva il tremore alle mani, motivo
sufficiente per negarsi un caffè, invece la settimana scorsa era
reduce da una serie di notti insonni, quindi il caffè si poteva
bere, non avrebbe influito sulla sua fisiopatologia. In compenso
Pompeo si beve tutto quello che dicono televisioni e giornali, quindi
non mangiava carne bovina quando scoppiò il caso della mucca pazza e
adesso ha appena riammesso i polli nella sua dieta dopo un anno di
esclusione per timore dell’influenza aviaria. Si lava continuamente
le mani, in modo ossessivo, per eliminare possibili
contaminazioni batteriche. E se nella conversazione fra amici capita
di parlare di malattie, quasi mai partecipa attivamente alla
discussione ma si pone in ascolto e non si perde nulla di quanto
viene esposto. Esprime però un garbato dissenso quando ci si
addentra nei particolari patologici o quando si affronta quello che
lui ritiene il massimo pericolo: il cancro. Solo una volta l’avevo
visto alterato quando Libero, per fargli comprendere quanto fosse
sbagliata la sua paura della malattia, gli disse “ma non sai che
c’è una teoria ben argomentata sulla possibilità che molti tipi
di tumori siano di natura psicosomatica e quindi, con la tua
spropositata angoscia, non esorcizzi la malattia ma puoi invece
provocarla?” Pompeo divenne tutto rosso, replicò con voce
balbettante a causa dell’ira “Libero, la tua teoria mettila dove
so io, smettila di sentenziare su tutto, già rompi con il tuo Dio,
sembri un talebano, ci manca solo che ti trasformi in medico”. La
risposta sgarbata dimostrava che Libero aveva toccato un nervo
scoperto, cioè l’intolleranza di Pompeo verso chi gli faceva
notare il suo timore di ammalarsi. A ciò si aggiunge anche il
perenne attrito fra i due dovuto al fatto che Pompeo giudicava in
modo sbagliato Libero: pensava che fosse un bigotto intollerante, non
comprendeva il profondo tormento dell’uomo alla ricerca della
fede. Libero ci metteva del suo nel non farsi amare, con il suo
linguaggio tagliente e pieno di sarcasmo che persone permalose come
Pompeo scambiavano per una derisione del pensiero altrui. Sarebbe
finita a male parole se non mi fossi interposto fra i due riuscendo a
fare da paciere. Però il problema rimaneva, Pompeo era troppo spesso
vittima delle sue paure e le trasmetteva agli amici: sembrava che,
con il continuo spiegare i sintomi delle sue malattie immaginarie,
chiedesse un aiuto ai confidenti e cercasse una rassicurazione. Senza
risultati perché la sua paranoia resisteva a qualsiasi parola di
conforto.
Com’era
invece diverso Alberto, l’atletico Alberto con il suo fisico
possente. Sembrava il ritratto della salute quando all’ennesima
donazione di sangue, fin da giovane offriva sangue due volte l’anno,
il medico gli disse “Alberto, ci sono dei problemi, dovresti fare
degli esami più approfonditi”. Alberto si trovò dalla sera
alla mattina in un girone infernale di ospedali, medici, cure. E
percentuali. Un primario gli ribadì “il tuo tumore ha una buona
percentuale di guarigione, fra il settanta e l’ottanta per cento,
ma per guarire dovrai fare molta chemioterapia”. E numeri, quelli
dei globuli bianchi. La sua vita ora era scandita dai giorni di cura:
prima ricoveri in ospedale poi day hospital in oncologia. Non parlava
mai esplicitamente della malattia, si limitava a dire “non ci sarò
nei prossimi tre giorni” e tutti intendevano che in quei giorni
sarebbe stato ricoverato, però si capiva benissimo che ogni suo
pensiero era per quel male che si era inserito, ospite indesiderato,
nel suo organismo. E nei suoi occhi si percepiva la determinazione
del lottatore, dell’agonista che non voleva perdere la partita,
partita che non contemplava il pareggio. Noi amici partecipavamo alla
battaglia nell’unico modo possibile: adoperandoci per fargli
sentire tutto il nostro affetto virile, dimostrandogli con la nostra
silenziosa presenza che facevamo tifo per lui. Poca roba, è vero, ma
capivamo che Alberto apprezzava il nostro sforzo corale. Solo uno dei
suoi amici non partecipava: Pompeo. Questi, quando seppe della
malattia, cercò in tutti i modi di evitare contatti con Alberto.
Quelle poche volte che non riuscì a schivarlo, fece trapelare tutto
il suo imbarazzo. Un impaccio così evidente che, alla fine, anche
Alberto preferì non incontrarlo, schivando ogni possibilità di
incontro. L’atteggiamento di Pompeo non era dovuto al timore di
poter essere contagiato, la sua ossessione delle malattie non
raggiungeva simili aberrazioni, ma per Pompeo Alberto rappresentava
la prova incontrovertibile che il cancro esisteva e colpiva a
casaccio, anche persone all’apparenza sanissime. Quindi, a maggior
ragione, poteva trafiggere anche lui, Pompeo. Di conseguenza era
molto meglio evitare Alberto perché ogni incontro stimolava
negativamente la psiche del pauroso malato immaginario. Per fortuna
Alberto non diede importanza all’ignobile comportamento di Pompeo,
sapeva delle sue manie e, anzi, era contento di non avere più a che
fare con un individuo talmente egocentrico. Nella migliore delle
ipotesi non gli era di nessun aiuto, nella peggiore avrebbe
contribuito a trasmettergli ansia, proprio ciò di cui Alberto non
aveva alcun bisogno.
Alberto
lottò a lungo, fu meticoloso nel rispetto delle cure e del programma
terapeutico. Non cadde neanche per un attimo nello sconforto, meno
che mai nella paura. Come un soldato nel campo di battaglia non si
chiedeva perché combatteva e contro chi si scontrava. Aveva un solo
scopo: combattere, mai indietreggiare, piuttosto cadere sotto il
fuoco nemico.
Infine,
Alberto fu sconfitto. E noi vecchi amici lo accompagnammo nell’ultimo
viaggio. Tutti in fondo al corteo funebre, dove spesso la gente
guarda in giro, come se fosse in gita, o chiacchiera e qualche volta
ride sommessamente. Nulla di grave o di scorretto, nei funerali solo
gli applausi sono stonati e sapevamo che il nostro vecchio compagno
di baldorie avrebbe apprezzato. C’eravamo tutti: mancava solo
Pompeo. Ufficialmente era impegnato nel corso di yoga ma il vero
motivo si doveva cercare nella sua idiosincrasia per le processioni
funebri, per tutto quanto gli ricordasse la morte ed il pensiero che,
inevitabilmente, prima o poi il trapasso avrebbe riguardato anche
lui. Lo yoga era una scoperta recente di Pompeo, sempre alla ricerca
di qualcosa che alleviasse la sua ansia. Aveva iniziato il corso
nonostante il mio rimbrotto “ma cosa credi di trovare
nell’ascetismo orientale, sono ormai duemila anni che dall’Oriente
non arriva nulla di buono”. Ancor più caustico Libero che non si
lasciò scappare l’occasione di attaccare l’ateo Pompeo: “come
diceva Gilbert K. Chesterton, quando si smette di credere in Dio non
è vero che non si creda più a nulla, si crede a tutto”. Libero
iniziò il corteo silenzioso, con il volto taciturno che fissava
l’asfalto. Poi, quasi borbottando, mi disse: “La sofferenza di
Alberto, non lo nego, mi fa dubitare dell’esistenza di Dio. Perché
il Signore permette un simile patimento? Però penso anche che
l’Onnipotente si è fatto uomo e ha sopportato un supplizio come la
crocifissione. E allora mi piace pensare che sia come la parabola dei
talenti, a qualcuno vengono dati cinque talenti, ad altri uno e
verranno giudicati secondo le specifiche capacità. Ad Alberto è
toccato il massimo dei talenti di sofferenza”. Detto questo Libero
ritornò silenzioso ma con il volto rasserenato. Mi piace Libero,
altro che bigotto, le sue riflessioni sono sempre interessanti. E
fanno ragionare. Infatti, per tutto il percorso del funerale, penso
alla parabola dei talenti ed alla interpretazione di Libero. Certo,
non ci sono dubbi, Alberto ha ricevuto il massimo di sofferenza
mentre Pompeo ha avuto in sorte il minimo, diciamo uno. Ma non mi
sembra che ne faccia un buon uso, la sua mente contorta lo porterebbe
a pensare di averne avuta anche lui almeno dieci. Il cervello umano,
che mistero. Quale strano meccanismo ha convinto Pompeo di poter
prendere tutte le malattie di questo mondo? E dove Alberto ha trovato
la forza di sopportare le inaudite sofferenze provocate dal cancro?
Sì, mi dico mentalmente, mentre il corteo funebre giunge al
cimitero, il cervello è davvero complicato. Il Creatore si è
divertito a crearlo così: le circonvoluzioni cerebrali sembrano un
labirinto, non c’era modo migliore per rappresentare il groviglio
di idee che si formano al suo interno.
17/01/2007
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