martedì 14 agosto 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 13
 
Un modo sicuro per rovinarsi l’esistenza è quello di aver paura delle malattie. Che bisogno c’è di preoccuparsi di un eventuale malanno quando si sta bene e si è nel fiore degli anni? Non sto parlando di chi fa una vita spericolata ma di persone con un modo di vivere salutare. Pompeo non fuma, non beve, è un buon camminatore, non è un vorace divoratore di prelibatezze anche se non disdegna la buona cucina. Ha avuto la fortuna di non avere avuto problemi nel corso della sua vita, né di ordine fisico né famigliare. Ed adesso me lo trovo di fronte, mentre lo invito a bere un caffè, che mi risponde “no, grazie, ma ho la tachicardia, al massimo mi prendo un decaffeinato”. L’altro giorno aveva il tremore alle mani, motivo sufficiente per negarsi un caffè, invece la settimana scorsa era reduce da una serie di notti insonni, quindi il caffè si poteva bere, non avrebbe influito sulla sua fisiopatologia. In compenso Pompeo si beve tutto quello che dicono televisioni e giornali, quindi non mangiava carne bovina quando scoppiò il caso della mucca pazza e adesso ha appena riammesso i polli nella sua dieta dopo un anno di esclusione per timore dell’influenza aviaria. Si lava continuamente le mani, in modo ossessivo, per eliminare possibili contaminazioni batteriche. E se nella conversazione fra amici capita di parlare di malattie, quasi mai partecipa attivamente alla discussione ma si pone in ascolto e non si perde nulla di quanto viene esposto. Esprime però un garbato dissenso quando ci si addentra nei particolari patologici o quando si affronta quello che lui ritiene il massimo pericolo: il cancro. Solo una volta l’avevo visto alterato quando Libero, per fargli comprendere quanto fosse sbagliata la sua paura della malattia, gli disse “ma non sai che c’è una teoria ben argomentata sulla possibilità che molti tipi di tumori siano di natura psicosomatica e quindi, con la tua spropositata angoscia, non esorcizzi la malattia ma puoi invece provocarla?” Pompeo divenne tutto rosso, replicò con voce balbettante a causa dell’ira “Libero, la tua teoria mettila dove so io, smettila di sentenziare su tutto, già rompi con il tuo Dio, sembri un talebano, ci manca solo che ti trasformi in medico”. La risposta sgarbata dimostrava che Libero aveva toccato un nervo scoperto, cioè l’intolleranza di Pompeo verso chi gli faceva notare il suo timore di ammalarsi. A ciò si aggiunge anche il perenne attrito fra i due dovuto al fatto che Pompeo giudicava in modo sbagliato Libero: pensava che fosse un bigotto intollerante, non comprendeva il profondo tormento  dell’uomo alla ricerca della fede. Libero ci metteva del suo nel non farsi amare, con il suo linguaggio tagliente e pieno di sarcasmo che persone permalose come Pompeo scambiavano per una derisione del pensiero altrui. Sarebbe finita a male parole se non mi fossi interposto fra i due riuscendo a fare da paciere. Però il problema rimaneva, Pompeo era troppo spesso vittima delle sue paure e le trasmetteva agli amici: sembrava che, con il continuo spiegare i sintomi delle sue malattie immaginarie, chiedesse un aiuto ai confidenti e cercasse una rassicurazione. Senza risultati perché la sua paranoia resisteva a qualsiasi parola di conforto.
Com’era invece diverso Alberto, l’atletico Alberto con il suo fisico possente. Sembrava il ritratto della salute quando all’ennesima donazione di sangue, fin da giovane offriva sangue due volte l’anno, il medico gli disse “Alberto, ci sono dei problemi, dovresti fare degli esami più approfonditi”.  Alberto si trovò dalla sera alla mattina in un girone infernale di ospedali, medici, cure. E percentuali. Un primario gli ribadì “il tuo tumore ha una buona percentuale di guarigione, fra il settanta e l’ottanta per cento, ma per guarire dovrai fare molta chemioterapia”. E numeri, quelli dei globuli bianchi. La sua vita ora era scandita dai giorni di cura: prima ricoveri in ospedale poi day hospital in oncologia. Non parlava mai esplicitamente della malattia, si limitava a dire “non ci sarò nei prossimi tre giorni” e tutti intendevano che in quei giorni sarebbe stato ricoverato, però si capiva benissimo che ogni suo pensiero era per quel male che si era inserito, ospite indesiderato, nel suo organismo. E nei suoi occhi si percepiva la determinazione del lottatore, dell’agonista che non voleva perdere la partita, partita che non contemplava il pareggio. Noi amici partecipavamo alla battaglia nell’unico modo possibile: adoperandoci per fargli sentire tutto il nostro affetto virile, dimostrandogli con la nostra silenziosa presenza che facevamo tifo per lui. Poca roba, è vero, ma capivamo che Alberto apprezzava il nostro sforzo corale. Solo uno dei suoi amici non partecipava: Pompeo. Questi, quando seppe della malattia, cercò in tutti i modi di evitare contatti con Alberto. Quelle poche volte che non riuscì a schivarlo, fece trapelare tutto il suo imbarazzo. Un impaccio così evidente che, alla fine, anche Alberto preferì non incontrarlo, schivando ogni possibilità di incontro. L’atteggiamento di Pompeo non era dovuto al timore di poter essere contagiato, la sua ossessione delle malattie non raggiungeva simili aberrazioni, ma per Pompeo Alberto rappresentava la prova incontrovertibile che il cancro esisteva e colpiva a casaccio, anche persone all’apparenza sanissime. Quindi, a maggior ragione, poteva trafiggere anche lui, Pompeo. Di conseguenza era molto meglio evitare Alberto perché ogni incontro stimolava negativamente la psiche del pauroso malato immaginario. Per fortuna Alberto non diede importanza all’ignobile comportamento di Pompeo, sapeva delle sue manie e, anzi, era contento di non avere più a che fare con un individuo talmente egocentrico. Nella migliore delle ipotesi non gli era di nessun aiuto, nella peggiore avrebbe contribuito a trasmettergli ansia, proprio ciò di cui Alberto non aveva alcun bisogno.
Alberto lottò a lungo, fu meticoloso nel rispetto delle cure e del programma terapeutico. Non cadde neanche per un attimo nello sconforto, meno che mai nella paura. Come un soldato nel campo di battaglia non si chiedeva perché combatteva e contro chi si scontrava. Aveva un solo scopo: combattere, mai indietreggiare, piuttosto cadere sotto il fuoco nemico.
Infine, Alberto fu sconfitto. E noi vecchi amici lo accompagnammo nell’ultimo viaggio. Tutti in fondo al corteo funebre, dove spesso la gente guarda in giro, come se fosse in gita, o chiacchiera e qualche volta ride sommessamente. Nulla di grave o di scorretto, nei funerali solo gli applausi sono stonati e sapevamo che il nostro vecchio compagno di baldorie avrebbe apprezzato. C’eravamo tutti: mancava solo Pompeo. Ufficialmente era impegnato nel corso di yoga ma il vero motivo si doveva cercare nella sua idiosincrasia per le processioni funebri, per tutto quanto gli ricordasse la morte ed il pensiero che, inevitabilmente, prima o poi il trapasso avrebbe riguardato anche lui. Lo yoga era una scoperta recente di Pompeo, sempre alla ricerca di qualcosa che alleviasse la sua ansia. Aveva iniziato il corso nonostante il mio rimbrotto “ma cosa credi di trovare nell’ascetismo orientale, sono ormai duemila anni che dall’Oriente non arriva nulla di buono”. Ancor più caustico Libero che non si lasciò scappare l’occasione di attaccare l’ateo Pompeo: “come diceva Gilbert K. Chesterton, quando si smette di credere in Dio non è vero che non si creda più a nulla, si crede a tutto”. Libero iniziò il corteo silenzioso, con il volto taciturno che fissava l’asfalto. Poi, quasi borbottando, mi disse: “La sofferenza di Alberto, non lo nego, mi fa dubitare dell’esistenza di Dio. Perché il Signore permette un simile patimento? Però penso anche che l’Onnipotente si è fatto uomo e ha sopportato un supplizio come la crocifissione. E allora mi piace pensare che sia come la parabola dei talenti, a qualcuno vengono dati cinque talenti, ad altri uno e verranno giudicati secondo le specifiche capacità. Ad Alberto è toccato il massimo dei talenti di sofferenza”. Detto questo Libero ritornò silenzioso ma con il volto rasserenato. Mi piace Libero, altro che bigotto, le sue riflessioni sono sempre interessanti. E fanno ragionare. Infatti, per tutto il percorso del funerale, penso alla parabola dei talenti ed alla interpretazione di Libero. Certo, non ci sono dubbi, Alberto ha ricevuto il massimo di sofferenza mentre Pompeo ha avuto in sorte il minimo, diciamo uno. Ma non mi sembra che ne faccia un buon uso, la sua mente contorta lo porterebbe a pensare di averne avuta anche lui almeno dieci. Il cervello umano, che mistero. Quale strano meccanismo ha convinto Pompeo di poter prendere tutte le malattie di questo mondo? E dove Alberto ha trovato la forza di sopportare le inaudite sofferenze provocate dal cancro? Sì, mi dico mentalmente, mentre il corteo funebre giunge al cimitero, il cervello è davvero complicato. Il Creatore si è divertito a crearlo così: le circonvoluzioni cerebrali sembrano un labirinto, non c’era modo migliore per rappresentare il groviglio di idee che si formano al suo interno.
17/01/2007

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