martedì 14 agosto 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 19
 
Avere vent’anni nel 1943. Avere vent’anni e convivere con la morte. Ogni tua decisione può costarti la vita, ma anche non decidere può comportare serie conseguenze. C’è la guerra e per la Signora con la falce sono anni di grande raccolto.
Bruno compì i venti anni il 10 di agosto del 1943. Pochi sanno che il suo vero nome non era Bruno ma Mario. Per una strana usanza del suo paese natale, Ronago, quasi tutti sono chiamati con un nome che non coincide con quello registrato all’anagrafe o in Chiesa. Bruno era il nome di un fratello maggiore morto in tenera età e la mamma, pur imponendogli il nome Mario, preferiva chiamarlo così, forse per stabilire una continuità fra i due figli che superasse il trauma della prematura scomparsa. Bruno era il quarto figlio di Carlo e Bambina, le famiglie avevano tutte numerosi figli, soprattutto quelle contadine, e il regime fascista promuoveva in tutti i modi la natalità. Tanti bambini vogliono dire tanti futuri soldati, ragionava il Duce impegnato nel pazzesco programma di forgiare un popolo di guerrieri e di riportare, lui novello Augusto, l’Impero sui colli fatali di Roma.
Bruno compì venti anni indossando la divisa grigio verde del Regio Esercito, li compì fra la Basilicata e la Calabria. Gli eserciti Alleati stavano completando l’occupazione della Sicilia, Messina sarà liberata il 17 di agosto, e Bruno dovette lasciare la sua caserma alpina di Bolzano e scendere a Sud per contrastare il previsto sbarco nella penisola. Non aveva ancora combattuto, per poco aveva evitato di finire nella bolgia russa che aveva triturato l’Armata Alpina fra il Don e Nikolajevka. L’importanza della classe di appartenenza: in Russia morirono i soldati nati nel 1920, 1921 e 1922, ora ballava la classe 1923 e, in arrivo, la 1924. Bruno non poteva sapere che le classi superiori a quella dell’anno 1926 avrebbero evitato la guerra, volontari a parte. Gli americani sbarcarono in Calabria il 3 settembre e stavano risalendo velocemente verso nord, quando esplose l’otto settembre. Sono passati tanti anni, ma non basteranno i secoli per dimenticare l’infausta data. Intendiamoci, qui non si contesta la resa alle forze alleate anglo americane ma come fu comunicata la notizia dell’armistizio, quell’ordine di “cessare immediatamente le ostilità contro le forze anglo americane e di reagire a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Il linguaggio burocratico ha un suo perverso fascino, “eventuali attacchi” perché, forse i tedeschi, che già erano sicuri del tradimento, non avrebbero eventualmente attaccato? E “qualsiasi altra provenienza” perché? C’era qualcun altro, oltre ai tedeschi, che ci poteva attaccare? Come tutti i soldati del Regio Esercito anche Bruno si trovò abbandonato, senza ordini, con i comandanti ancor più disorientati. In quel giorno di inizio settembre Bruno fu testimone e vittima della disgregazione dello Stato Italiano, comprese, con dolore, che l’Italia sbaglia sempre gli appuntamenti con la storia. E gli venne in mente suo padre Carlo, quando gli raccontava dell’altra guerra e del tracollo di Caporetto. Sì, dopo Caporetto ci fu la strenua difesa sulla linea del Piave, ma ora chi ci salverà dalla catastrofe? E, nel frattempo, cosa fare? Hai già conosciuto la feroce determinazione tedesca, la loro efficienza e baldanza. In questi pochi giorni trascorsi nel Sud dell’Italia hai visto, o meglio sentito, la terrificante potenza di fuoco degli americani. Americani che non devi più considerare nemici, mentre i tedeschi non sono più amici. In che guazzabuglio sei finito, povero Bruno? Davanti c’erano gli americani, siamo sicuri che non ti spareranno? No, meglio non aspettarli e intanto, evitiamo i tedeschi. Come? Tornando a casa. In quel giorno di settembre iniziò una collettiva anabasi dei soldati italiani. Ma, a differenza da quella raccontata da Senofonte, è un ritorno a casa disordinato dove ognuno pensava a salvare la propria pelle, e basta. Sei in un posto sconosciuto e non hai avuto il tempo di conoscerlo. Un piccolo pastore ti indica un percorso poco battuto, per non incrociare subito i tedeschi che hanno già incominciato la caccia agli italiani. Lo ringrazi e segni il suo nome, quando sarà tutto finito, se sopravvivrai, gli invierai una bella confezione di caramelle Ambrosoli come ringraziamento. E incomincia il lungo cammino verso nord, verso la tua casa distante più di mille chilometri. Incroci i binari della ferrovia, saranno la tua bussola. Non sei solo, perché altri disperati ti accompagnano, compagni occasionali perchè ognuno va secondo le proprie gambe. Hai già percorso un centinaio di chilometri e ti rendi conto che la tua divisa richiama troppo l’attenzione. Devi cambiarla, non vuoi rendere facile ai tedeschi la caccia. Di solito, quando in fondo ai binari intravedi una cittadina, fai una deviazione: i centri abitati sono presidiati dai tedeschi, meglio evitarli. Invece in questa città entri, con circospezione, sul calare della sera. Sei fortunato, una donna ti vede, ti ferma, ti domanda dove vai, gli rispondi e chiedi gentilmente di procurarti dei vestiti. La donna ti dice che ha un figlio della tua età da qualche parte nei Balcani e aiutarti per lei è un dovere, e anche un piacere, sarebbe come sostenere il suo figlio lontano. Ora indossi un abito di quel figlio, chissà se si salverà, e in cuor tuo ti dispiace di abbandonare la divisa, ti rendi conto che toglierla significa sottoscrivere le dimissioni da italiano. E’ l’istinto di sopravvivenza che ti guida, è quest’istinto che ti permette di arrivare, dopo giorni tormentati, a casa. Casa, dolce casa immersa nella collina. Ma la guerra non è finita, i fascisti si stanno riorganizzando e, con l’appoggio tedesco, ricostruiscono un esercito e tu, Bruno, sei di fronte ad un dilemma: aderire al nuovo esercito o essere considerato un disertore. Non aderisci e cerchi di espatriare in Svizzera. Ti incammini fra i boschi dietro casa e riesci a superare la rete di confine, la ramina, senza che nessuno ti veda ma, quando ormai pensi di esserti salvato, gli svizzeri non ti vogliono, devi dimostrare di appartenere al Regio Esercito o di essere un perseguitato, solo in questi casi la Confederazione aprirà i cancelli. Nulla da fare, ti riaccompagnano al confine, con squisita gentilezza ti accompagnano alla dogana di Ponte Chiasso, presidiata dai tedeschi. Ma non finisci in bocca al lupo, non è ancora giunto il tuo tempo, evidentemente, perché anche questa volta riesci a svicolare e tornare a casa, casa che non potrà più darti rifugio. Ti ospitano i Lambrughi, i vicini con la casa posta aldilà del ruscello che lambisce la tua abitazione. Strano popolo l’italiano, una collettività inadeguata, e la gestione della guerra lo dimostra ampiamente, ma con incredibili slanci di altruismo nei singoli individui: quanti aiuti hai avuto, il pastore, la mamma con il figlio soldato e ora la famiglia Lambrughi che corre notevoli rischi a nasconderti nella propria cantina. Ti fermi il tempo necessario per preparare adeguatamente l’espatrio e,            questa volta, ti accolgono nella Confederazione, ti mandano nella Svizzera interna, in un cantone francese. Vita dura, il cibo non abbonda, neanche per gli svizzeri, però lavori nelle campagne e trovi anche il tempo di imparare il francese: la scuola del Duce non era poi tanto male; certo, c’erano lezioni di mistica fascista, ma i tre anni di commerciale ti hanno dato una buona infarinatura e ti basta leggere i giornali francesi per comprendere la lingua e riuscire, poi, a conversare con gli svizzeri.
Infine, arriva il 1945 e la guerra finisce e puoi tornare, finalmente, a casa. Quando arrivi nel paesello, l’estate è già inoltrata, il caldo ti avvolge e ti sembra un buon auspicio. T’illudi, perché ti convocano presso il Comune, la nuova giunta nominata dal CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, vuole sentirti. Ti comunicano che c’è una denuncia contro di te: durante i primi anni della guerra avresti picchiato, in accordo ed assieme al segretario locale del PNF, il Partito Nazionale Fascista, un tale che ora chiede giustizia. Hai pochi giorni di tempo per discolparti, neanche una settimana. Non ti aspettavi certo una simile accoglienza, ma non hai  per recriminare e comprendi che la guerra civile svoltasi in tutto il Nord dell’Italia ha lasciato innumerevoli strascichi. E’ il tempo della vendetta, e qualcuno se ne approfitta per regolare anche le controversie private, non politiche. Capisci che sarà un processo difficile, soprattutto temi i comunisti presenti nella Giunta comunale che ti giudicherà. I comunisti: li hai già conosciuti in Svizzera, un folto gruppo proveniente dalla Valle d’Ossola da dove erano fuggiti, quando i nazifascisti avevano distrutto la Repubblica dell’Ossola. Li hai conosciuti e non ti erano piaciuti, troppo arroganti e fanatici. Sai anche che le loro armi non hanno smesso di funzionare con la fine della guerra, ti hanno informato delle fucilazioni di fascisti, o presunti tali, a Lurate, nella Valfresca, fra San Fermo e Como, e a Trevano il sedici di maggio, a neanche un chilometro dalla tua casa, hanno fucilato dieci fascisti fra cui una donna.  No, non sarà facile difendersi dalle accuse, anche se fortunatamente risiedi in Ronago e non in un paese dell’Emilia, lì ti avrebbero fucilato senza neanche un processo. Non sarà facile, ma non hai paura, ormai i terribili anni quaranta ti hanno rodato e non ti farai sopraffare dal panico. Anzi, non solo ti difendi, ma attacchi, smonti con irruenza le menzogne che ti gettano addosso. Ti lasciano andare, lo sguardo di tuo padre che ti aspetta fuori dl municipio manifesta un solo sentimento: terrore. Gli sorridi e con un semplice “ndemm a cà” (andiamo a casa) lo rassicuri, bastano queste poche parole per esprimere lei tue emozioni, siete lombardi di collina, stringati e sobri. Però quest’ultima vicissitudine ti è servita perché hai compreso che la povera Italia, appena uscita da una dittatura correva il grave rischio di cadere in un regime autoritario di segno opposto. Per questo ti sei impegnato, nel tuo piccolo mondo, affinché ciò non accadesse e hai contribuito alla vittoria, nelle elezioni del 18 aprile 1948, della Democrazia Cristiana ed alla sconfitta del Fronte Popolare egemonizzato dai comunisti. Con le elezioni del 1948 finisce la travagliata gioventù di Mario Quadranti detto Bruno.
Ora puoi contribuire, con il tuo assiduo lavoro, alla rinascita dell’Italia.
Ora puoi sposare la Jole, procrearmi.
PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 18
Il tragitto del viaggio di nozze fu ideato completamente da Vittorio. Infatti, Monica gli disse “finora mi sono occupata di tutte le incombenze e ti ringrazio per avermi lasciata sbizzarrire, ma mi sembra giusto che sia tu a scegliere dove andare dopo il matrimonio: io ti seguirò, dovunque mi condurrai“. Erano fatti così i due sposini, non sceglievano assieme, magari dopo elaborate discussioni, ma uno decideva e l’altro si adattava. Strano meccanismo, ma funzionava e per Monica fu più difficile esporre alle amiche il percorso che accettarlo. Come spiegare, a chi si aspetta un’assolata isola caraibica o una bianca spiaggia maldiviana, la scelta di Vittorio, un vagare fra città d’arte italiane alla ricerca delle testimonianze lasciate dai secoli? Difatti non capirono, non potevano comprendere, tutte convinte che un viaggio nuziale dovesse essere all’insegna di sole, svago e sesso, non necessariamente in questo ordine. Finì che Monica sbottò con un “state zitte, antipatiche malelingue, Vittorio me lo sono sposato io e non azzardatevi a contestare le sue preferenze”. In effetti, sembrava un viaggio studio perché Vittorio elaborò un percorso che si snodava lungo la costa tirrenica o nelle immediate vicinanze: una veloce discesa in Campania, a Pompei, e poi una lenta risalita per la penisola, passando per Roma, Viterbo e alcune città toscane. L’obiettivo di Vittorio era quello di andare alla ricerca di luoghi fondamentali della storia e della cultura italica, un’osservazione diretta del nostro passato, prossimo e remoto, nella convinzione che fosse utile e di ulteriore stimolo alla loro cultura.
Comprensibile, quindi, iniziare dagli scavi archeologici di Pompei, dalla città dell’era romana pietrificata dall’eruzione del Vesuvio nell’anno 79, descritta dal comasco Caio Plinio il Giovane e che costò la vita all’illustre zio Plinio il Vecchio. Una volta conosciuto l’itinerario, Monica si era organizzata comprando le più aggiornate guide turistiche perché voleva essere all’altezza del più preparato compagno. Sono sua moglie, si diceva, è giusto assecondarlo nelle sue passioni, soprattutto in questa che mi permette di conoscere nuovi paesaggi e culture. Dopo Pompei risalirono a Roma, città che entrambi avevano già visto, anche se separatamente, però Vittorio voleva visitare l’EUR, il quartiere a sud della città costruito nei primi anni quaranta per l’esposizione universale che avrebbe dovuto tenersi nel 1942 e che invece fu annullata a causa della guerra. Vittorio era un estimatore dell’architettura razionalista italiana, una passione che lo accompagnava dall’infanzia e dovuta all’ammirazione per le opere di Giuseppe Terragni. Girando per Como era rimasto impressionato da opere come Nova Comum o l’ex Casa del fascio di Piazza del Popolo, si era documentato moltissimo su quel periodo ed ora aveva l’occasione di vedere, dal vivo, opere come il Palazzo dei Congressi e soprattutto il Palazzo della Civiltà Italiana, meglio conosciuto come il Colosseo Quadrato. Monica seguiva il marito in questo peregrinare nel corso dei secoli con crescente fervore, un entusiasmo da neofita. Le piaceva il brusco passaggio da una città pietrificata dalla lava a questo quartiere costruito per stupire. Certo, da bravi innamorati non si negarono una passeggiata per Piazza Navona o sulla romantica scalinata di Trinità dei Monti, e lanciarono, spalle rigorosamente mostrate alla fontana, le monetine nella Fontana di Trevi. Invece non visitarono la Roma papalina, a parte la Basilica di San Paolo fuori le mura che non avevano mai visto, ma si rifecero nell’ambito delle costruzioni religiose a Viterbo, città piena di edifici di costruzione papalina. Monica scoprì che la parola conclave fu coniata qui, quando, nel Duecento, i cardinali che dovevano eleggere il successore di Clemente IV si riunirono inutilmente per tre anni, ed allora il popolo viterbese, sdegnato da tanto indugio, giunse all’energica decisione di chiudere a chiave i cardinali nella sala dell'elezione (clausi cum clave), nutrirli a pane e acqua, e scoperchiare il tetto lasciandoli alle intemperie, finché non avessero eletto il nuovo Papa. Dopo Viterbo, un nuovo salto nel passato, nell’etrusca Volterra. Monica fu estasiata da questa cittadina posta su un colle, piccola ma completa: da buona lombarda abituata ai climi umidi e piovosi, si inebriò nel clima ventoso e secco di Volterra. Vittorio spiegò alla sposa, mentre guardavano il borgo dalle balze, la zona franosa che incide il colle su cui essa è disposta, che Volterra era un perfetto paradigma dell’Italia: splendida ma sempre sul punto di rovinare, di franare.
Infine, l’ultima tappa del viaggio nuziale fu Lucca. Nessuno dei due sposi vi era mai stato, non era nemmeno nei programmi di Vittorio, in verità era stato Libero a consigliarla all’amico, dicendogli “vai a Lucca, ti sorprenderà, e poi è l’unica città toscana non governata dai comunisti, già questa anomalia mi sembra un ottimo motivo per farci una tappa.” Mai consiglio fu più azzeccato pensò Vittorio quando entrò in quel gioiellino incassato fra verdi colline. Splendida la cinta muraria che la circonda, splendidi i palazzi e le torri. Splendida la piazza dell’Anfiteatro, dalla forma ellittica e costruita sui resti di un antico anfiteatro romano- Splendide le innumerevoli chiese come la Basilica di San Frediano dal meraviglioso mosaico sulla facciata, la Chiesa di san Michele in Foro, con decorazioni romaniche e verticalismi di ispirazione gotica, e la Cattedrale di San Martino. Fu in questa ultima chiesa, conosciuta anche come il Duomo di Lucca, che i nostri sposi subirono la più forte emozione della luna di miele. Successe quando entrarono nel transetto sinistro e videro il sarcofago raffigurante una giovane donna, ai suoi piedi un cagnolino e, sui lati della tomba, numerosi putti. Nonostante i secoli avessero lasciato segni sul volto della statua, la bellezza del viso, i suoi tratti delicati e perfetti, colpirono enormemente i due sposi. Vittorio pensò che gli autori delle favole sulle belle addormentate risvegliate dai principi vestiti d’azzurro avessero preso ispirazione da quel viso, tanto che per un attimo ebbe la folle intenzione di baciarla, chissà, magari si sarebbe svegliata. Poi tralasciò il proponimento, dopotutto non era un principe, non aveva nessun titolo per svegliare fanciulle assopite. Intanto Monica, mentre Vittorio fantasticava, si informò subito su chi fosse la donna raffigurata: il manuale riportava il nome di Ilaria del Carretto, figlia di Carlo del Carretto, marchese di Savona e concessa in sposa al signore di Lucca, Paolo Guinigi, il 3 febbraio 1403. Dopo aver partorito nel 1404 un figlio, Ladislao, la giovane e bellissima signora diede alla luce nell’anno successivo una bambina. Sfortunatamente dopo il parto, la donna morì, gettando nello sconforto il marito. Paolo Guinigi commissionò quindi allo scultore Jacopo della Quercia il sarcofago in marmo raffigurante l’effigie dell’amata moglie, tramandandola così nel corso dei secoli. Monica lesse queste notizie con un filo di voce, ma in modo comprensibile anche per Vittorio, alternando lo sguardo fra il libro ed il sarcofago. Poi, quando finì di leggere, intercalò gli occhi fra il viso di Ilaria e quello del marito. Infine proruppe in un pianto disperato. Lacrime copiose, singhiozzi e gemiti. Vittorio dapprima guardò la sposa con un’espressione stupita, poi comprese il motivo del pianto, gli passò per la mente dapprima il desiderio di farla smettere e nell’attimo successivo gli balenò il pensiero che anche lui avesse un ottimo motivo per piangere e proruppe in lacrime ancor più traboccanti di quelle di Monica. Non c’erano turisti in quel momento, nel transetto della Chiesa, solo un custode che non si stupì più di tanto della reazione esagerata della coppia. Sapeva quanto la statua di Ilaria del Carretto colpisse l’immaginazione dei visitatori, anche illustri, come Pier Paolo Pasolini che scrisse una poesia sull’opera di Jacopo della Quercia …nessuno scalpello potrà scalzare la mole tenue di queste palpebre. Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia perduta nella morte, quando la sua età fu più pura e necessaria. O come il critico d’arte e pittore inglese John Ruskin, vissuto nell’Ottocento e che periodicamente tornava a Lucca per rivedere quel volto e i suoi capelli, raccolti in ricche trecce (…); i suoi dolci occhi, dai sopraccigli arcuati (…); l'assenza del dolce sorriso su quelle labbra graziose (…); e tuttavia non è né morte né sonno, ma un puro e casto ricordo. Oppure, pensò il custode, avranno la Sindrome di Stendhal, quella particolare sintomatologia che colpisce alcuni turisti messi al cospetto di opere d’arte di particolare bellezza, sindrome che colpì appunto lo scrittore Stendhal nel 1817, dopo una visita alla Chiesa di santa Croce in Firenze. Nulla di tutto questo, Ilaria del Carretto aveva solo contribuito a riaccendere gli incubi dei due sposi: Monica vedeva davanti a sé una giovane madre morta nel dare la vita mentre lei aveva scelto la facile scorciatoia dell’aborto. Vittorio scorgeva nel viso perfetto di Ilaria un’altra faccia, quello adolescente di Laura, che lui aveva spezzato investendola.
No, non è facile dimenticare i propri tormenti. Piangete pure, cari sposini, affinché le lacrime vi siano di sollievo, piangete su questo sarcofago che raffigura una morta come se fosse una dormiente tanto che il cagnolino aspetta il risveglio per scodinzolare e saltarle in grembo.
11/01/09


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 17
Adesso mi allento la cravatta, pensò Vittorio, l’ho tenuta ben stretta tutto il giorno, ora posso rilassarmi un po’. Non la porto mai, ma per il matrimonio non si poteva non indossarla, per di più è proprio bella e morbida. Certo che il pranzo matrimoniale è strano visto da qui, dal tavolo principale e con gli occhi dello sposo. La prima cosa che colpisce è il frastuono, un rumore di sottofondo provocato da cinquanta persone che parlano, mangiano e ridono. E’ sempre bello vedere tante persone sorridenti, anche se, a voler essere precisi, non tutti sembrano contenti. Gigi sta armeggiando troppo con la bottiglia, sembra quasi che stia dialogando con il vino rosso racchiuso nel vetro. Brutto segno. Prima l’ho intravisto, in un angolo appartato del ristorante, parlare intensamente con Tiziana; quella stronza lo guardava con un malcelato disprezzo. Ascoltava zitta mentre Gigi si esprimeva e nello stesso tempo si contorceva muovendo la testa e le mani come se le parole non fossero sufficienti e avesse bisogno di un aiuto del corpo per poter convincere Tiziana. Poi il viso di Tiziana aveva assunto un’espressione glaciale mentre rispondeva al mio amico: poche parole sibilate e subito si era allontanata lasciandolo solo. Gigi era rimasto per qualche minuto a fissare il muro, il volto pallido e tremante per la delusione. Poi, era tornato al suo posto e si era attaccato alla bottiglia. Lo conosco Gigi, ha una sbronza triste, non grida e non diventa aggressivo sotto l’effetto dell’alcool, si racchiude in sé stesso, nel suo dolore. Povero amico, non si rende conto che è inutile prendersela se una ragazza non ti desidera: invece di giungere alla conclusione che chi non ti vuole non ti merita, si starà arrabattando sul perché del gran rifiuto di Tiziana, cercando di capire dove ha sbagliato. Perché, sicuramente, Gigi pensa di avere torto, non valuta quanto sia carogna Tiziana. Hai le tue colpe, Gigi, perché ti sei innamorato della persona sbagliata e non te ne rendi conto. Almeno ti fosse utile la sbornia.
Anche in un altro gruppetto hanno smesso di ridere e ascoltano con attenzione Marco, il cugino medico di Monica. Sicuramente starà parlando di qualche pericolosa malattia perché Pompeo, che seguiva il discorso con gli occhi sbarrati, è schizzato via neanche fosse Speedy Gonzales. E’ sempre il solito fifone, scommetto che adesso, per esorcizzare quanto ha sentito, andrà a rompere le scatole a Libero. Scommessa vinta, eccolo lì seduto accanto al mio migliore amico. Mi avvicino, voglio sentire cosa avrà inventato Pompeo per tormentarlo. Nulla di nuovo, ultimamente Pompeo è monotono, sempre con la storia che Libero predica bene ma razzola malissimo, visto che non frequenta mai la Chiesa. Ilvino, e la lunga notte passata con me, hanno intorpidito Libero perché non si adira e non alza nemmeno la voce, però la sua forza polemica è intatta; infatti, risponde subito, sorridendo, “ti ringrazio, caro Pompeo, perché ti preoccupi della mia anima e desideri, ardentemente, che mi liberi dei miei peccati. Io so benissimo di sbagliare non frequentando la Chiesa e commetto anche un peccato grave, d’orgoglio, perché penso di poter confrontarmi con Dio senza la comunione con la Sua Chiesa, persino la tua testa bacata può capire che questo è un bel peccato di superbia. In verità tu vorresti che io vada a Messa per potermi criticare meglio. Diresti: guardate Libero, è sempre in Chiesa e nonostante sia un baciapile, ha combinato questo e commesso quello, che uomo incoerente quel Libero. Ti sfugge un particolare, che siamo tutti peccatori e nessuno è perfetto e proprio la storia della Chiesa dimostra quanto affermo. Come scriveva il mio amato Gilbert Keith Chesterton , Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni ma Pietro, un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la Sua Chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno prevalso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole.Gesù Cristo non ha cercato in Pietro la perfezione e tu, o stolto Pompeo, non rimproverarmi di non essere perfetto”. Pompeo incassa la risposta e si allontana bofonchiando “Libero, sei il solito megalomane, adesso ti paragoni anche a San Pietro” mentre Libero, come se mi vedesse solo in quel momento mi saluta, alza il calice e grida “brindiamo a Vittorio ma soprattutto alla sua sposa radiosa”. Non mi sottraggo al nuovo brindisi e mentre sorseggio penso che anche questa volta Libero ha azzeccato il termine: Monica è veramente radiosa in questo giorno di maggio. La guardo ammirato mentre conversa con un gruppo di invitati, un sorriso per tutti e l’attenzione per chiunque le parli, come se non fosse lei la principale interprete del matrimonio. Sembra rilassata ma ho notato che, mentre io ho ingurgitato tutto senza negarmi qualche bis, non ha mangiato o, meglio, ha sbocconcellato un po’ del lauto pranzo e questo è un sintomo di tensione latente perché Monica, quando è ansiosa, non mangia. E’ normale che il desiderio di una cerimonia memorabile le procuri un po’ di agitazione. Ma nulla d’altro trapela della sua apprensione, neanche adesso che la invitano a lanciare il bouquet, come da consolidata tradizione, gettandolo alle spalle e con tutte le nubili presenti alle nozze pronte a riceverlo. Proprio tutte no, Tiziana non partecipa, lei è superiore, non si abbassa a queste manifestazioni plebee e penso: “Ma chi la vuole una così, una tritasassi egoista come lei”. Chi si cimenta nella sua conquista - e lancio uno sguardo a Gigi sempre incollato alla bottiglia – ha buone probabilità di finire disintegrato. In verità immagino già chi raccoglierà il bouquet, c’è un tacito accordo fra le ragazze affinché il mazzolino di fiori finisca fra le mani di Cecilia considerata da tutti la meno adatta a trovar marito. Anche lei lo sa e dice alle amiche che con gli uomini è stata sfortunata, non ha trovato nessuno che la comprendesse, gli uomini hanno in mente solo una determinata cosa e nessuno vuole instaurare un rapporto paritario, di reciproco rispetto e comprensione. Questa è la sua versione e, in effetti, è molto più facile assolversi e dare la colpa a metà del genere umano invece di guardarsi dentro ed analizzarsi con franchezza. Se lo avesse fatto, Cecilia si sarebbe resa conto di essere un’insopportabile chiacchierona che intende il rapporto paritario nel seguente modo: io parlo e, tralasciamo le sciattezze dette, tu ascolti. Cecilia riesce a parlare a velocità supersonica, l’interlocutore non ha alcuna possibilità di interrompere il flusso di parole. E’ normale che i maschietti scappino a gambe levate appena comprendono chi hanno di fronte. Intanto Monica ha lanciato alle sue spalle il bouquet e Cecilia riesce a raccoglierlo con un gridolino di soddisfazione. Tutte le amiche strillano contente e Monica la bacia con entusiasmo dicendole “vedrai, questo è un buon segno, troverai qualcuno che ti apprezzerà” e io medito che non devo giudicare la mia sposa dalle sue amiche perché alcune, Tiziana e Cecilia in particolare, sono veramente insopportabili. D’altra parte so che Monica non sta recitando, desidera veramente la felicità delle sue amiche, è generosa e leale. La guardo con ammirazione, fasciata dal vestito bianco che non saprei descrivere nei minimi particolari come fanno le donne, dettagli che non mi interessano perché mi importa solo la sua bellezza. La guardo con orgoglio maschile perché intuisco quanto gli uomini presenti al banchetto la fissino con desiderio, ma solo io sono stato il prescelto. La guardo con tenerezza perché ho capito che sotto i suoi smaglianti sorrisi c’è sempre una profonda tristezza. Anche in questo giorno solenne e gioioso, Monica avrà sicuramente pensato a quel figlio non nato perché abortito. E’ strana la vita, io ho investito ed ucciso una povera ragazzina, l’ho vista morire in mezzo alla strada ma non ho i sensi di colpa che tormentano Monica. Certo, sono stato malissimo, per un non breve periodo il rimorso mi ha portato sull’orlo del suicidio, ma ormai convivo con il mio errore e dolore. Invece Monica è passata per un asettico ospedale, ha subito un intervento indolore e non ha visto quel grumo di cellule asportato dal suo ventre, tuttavia non riesce a perdonarsi per lo sbaglio commesso. Probabilmente perché non si trattava semplicemente di un grumo di cellule ma di un essere in preparazione. Così, quando incrocia una carrozzina con un neonato, Monica subito si adombra, i suoi splendidi occhi verdi si velano di tristezza. E, ancora peggio, quando incontra una donna in gravidanza non profferisce parola per lunghi minuti, persa nei suoi pensieri o, meglio, nei suoi tormenti. Vorrei aiutarla, innumerevoli volte le ho spiegato che tutti possono sbagliare, l’importante è non ripetere sempre gli stessi errori, però non sono riuscito ad esaudire il mio intento. Chissà, forse un figlio nostro, desiderato e cercato, sarà il toccasana che spazzerà via le angosce. Sarà per questo che, quando Monica mi si avvicina e mi dice sorridendo, “Vittorio, mi hai appena sposata e già mi trascuri” io le rispondo, mentre in testa mi rimbomba la frase chestertoniana di Libero, “sai, cara sposa, stavo pensando al nome da dare al nostro figlio, se lo avremo, che ne diresti di Pietro?”
08/11/08

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 16
La data di nozze fu fissata per la metà di maggio. Ci si sposa nel mese di maggio o di settembre, aveva detto Monica e Vittorio assecondò il volere della compagna. Come aveva accontentato tutti i desideri della futura sposa in quel lungo periodo di preparazione al matrimonio. Anche la più assurda: Monica non voleva che la notte prima delle nozze la passassero assieme. “Conviviamo da un anno - cercò di resistere Vittorio - spiegami cosa significa dormire separatamente la notte della vigilia?” Monica tirò in ballo la tradizione da rispettare: “Quando mai una coppia dorme nello stesso letto prima della cerimonia?”. E poi non sarebbe stato di buon auspicio per il successo del matrimonio. Non solo impose al futuro marito di uscire quella notte, ma si ingegnò per organizzargli un addio al celibato in buona compagnia. Monica si fidava del compagno, ma non così tanto da renderla totalmente sicura. Per evitare che la festa degenerasse, scelse accuratamente, fra gli amici di Vittorio, quelli meno trasgressivi. Naturalmente il primo convocato fu Libero, così stancante per il suo fervore religioso, ma utile invece per quanto riguarda l’aspetto morale; poi Pompeo, nevrotico con le sue fissazioni sulle malattie, ed infine Gigi che sì, è vero, lui pensava al sesso, ma lo collegava solo alla conquista di Tiziana, le altre ragazze non le considerava proprio. Fra gli amici di Vittorio, i tre prescelti erano i più inoffensivi e, rifletteva Monica, non solo non avrebbero condotto Vittorio in avventure licenziose, ma erano, loro stessi, i migliori deterrenti immaginabili. Fu così che in quella sera di maggio i quattro amici si recarono in un noto locale di Villa Guardia. Guidava Vittorio, mentre Libero, seduto al suo fianco, si lamentava perché erano le undici, un’ora buona per rincasare non quella più adatta ad iniziare una serata. Non fu l’unica lamentela di Libero perché, con parecchi anni in più rispetto agli altri compagni d’avventura, era rimasto alle vecchie balere, non immaginava che le discoteche moderne fossero una combinazione infernale di rumori e luci fastidiose. Smarrimento comprensibile, Libero era un uomo ciarliero, quasi logorroico, ma qui, in questo ambiente, dove per intendersi bisognava urlare nell’orecchio del vicino, non poteva trovarsi a proprio agio. Neanche gli altri si divertivano: Pompeo pensava all’appuntamento con il dentista del prossimo lunedì; già l’andare dall’odontoiatra lo metteva in agitazione, ora aveva programmato un lungo intervento con uso di viti e ponti che lasciavano intendere una sola cosa certa, il dolore. E da vero fifone, Pompeo stava male molto prima di sistemarsi sulla poltrona del dentista. Gigi voleva invece risolvere il problema Tiziana: sfruttando la prevedibile atmosfera allegra del matrimonio di Monica e Vittorio le avrebbe rivelato il suo entusiastico amore. Certo, avrebbe calcolato bene il tempo ed il modo della dichiarazione, nel frattempo si tormentava a causa dell’ansia e per il timore che Tiziana non rispondesse positivamente. Non dimostrava allegria neanche il festeggiato: Vittorio aveva un’espressione annoiata, i continui sguardi all’orologio tradivano la volontà di vedere il più presto possibile la fine della serata. Così, dimostrando che ci si può annoiare anche in mezzo ad una folla urlante, i quattro amici tirarono svogliatamente fino alle tre, quando la stanchezza ebbe il sopravvento.  Lasciarono il locale e Vittorio portò a casa prima Gigi e poi Pompeo. Sceso quest’ultimo disse a Libero “finalmente, ora inizia la commemorazione”. L’assonnato Libero non disse nulla, ma pensò che l’amico aveva bevuto troppo. Non proferì nulla neanche quando l’auto non si fermò davanti alla sua abitazione e proseguì in direzione Ronago. Giunto in località Ponte della Passera, a Trevano, Vittorio accostò la macchina e si fermò, a sinistra della strada, all’inizio di un ripido sentiero. “Come senza dubbio sai - disse a Libero - in questo punto, nel maggio del 1945, dieci fascisti furono fucilati dai comunisti. Per la precisione accadde il 16 maggio, come oggi, giorno del mio matrimonio. E noi due li rievocheremo, accendendo dieci lumini”. Infatti, Vittorio aprì il baule dell’auto ed estrasse dieci piccoli cerini. “E’ il terzo anno consecutivo che li accendo – spiegò Vittorio -  e  quest’anno,  grazie alle fissazioni di Monica, per la prima volta non sarò solo”.  Libero dimenticò la stanchezza e, con voce tremolante, segno di turbamento, disse all’amico: “Perdinci, non avrei mai immaginato che tu fossi un fascista”. Vittorio rispose subito, con una leggera stizza, “mi deludi, pensavo che tu fossi arguto, infatti, non ho accennato nulla delle mie intenzioni a Pompeo e Gigi, non avrebbero capito, ma tu Libero… dimmi, da che parte stavi, con gli indiani o con i cowboy?”. Libero d’impulso rispose: “uno come me cresciuto leggendo Tex Willer, ed ho avuto la fortuna di leggere, da ragazzo, persino i primi numeri, non può essere che dalla parte dei pellerossa, ma, spiegami, cosa c’entrano indiani e cowboy con i fascisti?”.  “Eccome se c’entrano – ribatté Vittorio – almeno con quella specie particolare di fascisti che furono i repubblichini: una tribù di perdenti che, come gli indiani d’America,  combatteva contro gli invasori Yankee ben sapendo di avere come unica certezza la sconfitta, vista la enorme disparità delle forze in campo. E con la disfatta ci sarebbe stata la colonizzazione. Di sicuro andò peggio agli indiani, ma, non lo puoi negare, anche noi siamo stati colonizzati, nel modo di pensare, nel vestire, perfino nell’alimentazione, anche se in questo campo specifico resistiamo ancora bene. Così come mi erano simpatici gli indiani d’America, devo confessarti di avere avuto da sempre, non dico una simpatia, ma di sicuro un forte interesse per i fascisti repubblichini. Non per il fascismo vincente ed osannato del Ventennio, ma per i disperati che difendevano un’epoca destinata ad essere spazzata via per sempre. E le vicende della mia vita mi hanno condotto ad aumentare quest’attrazione. Perché anch’io sono uno sconfitto: lo sai che l’altro giorno ho incrociato il padre di Laura e questi mi ha detto, fissandomi con odio,  < ti sposi bastardo, mentre mia figlia l’hai mandata sottoterra, che tu sia maledetto nei secoli dei secoli >. Incredibile, ha usato questa formula da preghiera per condannarmi eternamente. Come puoi benissimo capire, pure io sono un dannato che non avrà mai perdono, per questo motivo mi sento simile ai dieci fascisti ammazzati qui”.
Libero rimase pensieroso per un po’, con il mento appoggiato sul pollice della mano sinistra e il naso sull’indice, poi disse: “con i miei trascorsi comunisti puoi ben capire, caro Vittorio, che i fascisti non mi sono graditi. Però le tue sincere motivazioni mi piacciono e posso partecipare alla tua commemorazione, considerato che ricordiamo degli sconfitti e non celebriamo un’ideologia che non ci appartiene”. “Bene, disse Vittorio, ti chiedo un ultimo favore, li ricorderemo nello stesso modo usato dai loro camerati, io dirò i nomi dei dieci e tu risponderai ogni volta con uno stentoreo: Presente!”. Libero borbottò un po’, maledicendo l’amico e le sue strane fissazioni, ma ubbidì. Vittorio lesse i seguenti nomi, date di nascita ed incarico :
·         Forni Antonio di Giacomo, Tenente della Divisione San Marco 3 Rgt. Art. nato a Maslianico il 21/09/1904,
·         Gatti Francesco di Pietro nato a Samolaco (SO) il 22/07/1922
·         Mauri Vittorio di Federico, Milite della Guardia Nazionale Repubblicana, nato a Cesano Maderno (MI) il 27/06/1894
·         Melis Mario di Giovanni, nato a Terralba (CA), di anni 42, residente  a Maslianico
·         Nessi Elisabetta di Giovanni in Cassina, civile, domestica, nata a Piazza Santo Stefano il 01/11/1901, residente a Maslianico
·         Penati Luigi, Milite della Guardia Nazionale Repubblicana,nato a Cantù, di anni 21, ivi residente
·         Nello Mario     
Fra un nome e l’altro Vittorio rimase in silenzio per un istante per dar modo a Libero di gridare il suo Presente! Poi disse “di tre fucilati non si sa il nome, per tre volte dirò Caduto Ignoto e tu mi risponderai Presente” e così fecero. Libero eseguì perfettamente: solo dopo il nome della donna commentò con un “poveretta, chissà quale colpa avrà commesso, sempre che di colpa si debba parlare”. Alla fine dell’elenco Libero chiese all’amico “dove cavolo hai trovato i nomi dei fucilati?”. “Semplice – rispose Vittorio – in Internet si trova tutto, basta saper cercare. Ed è un bel paradosso che un sistema creato dai militari americani per scopi, almeno all’inizio, difensivi sia pieno di siti esplicitamente antiamericani”.
I due amici attesero nell’auto che i lumini si spegnessero. Nel lettore CD dell’auto Vittorio aveva inserito un disco con canzoni di gruppi e cantanti neofascisti. Nomi e canzoni che Libero non aveva mai sentito, di cui non sospettava neppure l’esistenza. Fu colpito, in particolare da due canzoni: nella prima, di Massimo Morsello (è il De Gregori nero, gli spiegò Vittorio, spiegazione inutile perché Libero non conosceva né l’uno né l’altro) c’erano frasi come Entrammo nella vita dalla porta sbagliata in un tempo vigliacco, con la faccia sudata, e poi Pregammo la vita di non farci morire, se non c'era un tramonto da poter ricordare,per finire con un di un ragazzo a vent'anni che moriva da vecchio frasi, pensò Libero, che potevano benissimo essere dedicate ai morti del Ponte della Passera. L’altra canzone era di un complesso dal nome strano, 270 bis (è un articolo del codice penale, spiegò Vittorio, ma Libero non capì quale fosse la relazione con i cantanti) e, già dal titolo, Claretta e Ben, preannunciava il testo, un completo martirologio dei camerati morti, da Piazzale Loreto fino ai più recenti degli anni settanta, come le stragi di Primavalle e di Acca Larentia. Di quest’ultima canzone Libero imparò subito l’orecchiabile ritornello che diceva: Io, ho il cuore nero e tanta gente mi vorrebbe al cimitero, ma, io ho il cuore nero e me ne frego e sputo in faccia al mondo intero.“Sì - disse Libero ad alta voce - questa frase è la sintesi della vita dei dieci ammazzati qui. E sarebbe giusto chiudere con questa canzone la nostra celebrazione. Ma non siamo fascisti. E i morti si ricordano, tutti, in un solo modo. Considerato il periodo in cui sono caduti, reciterò la preghiera in latino: Réquiem ætérnam dona eis, Dómine, et lux perpetua lùceat eis. Requiéscant in pace. Amen. Ed ora andiamo, Vittorio, sta albeggiando, non vorrai correre il rischio di rompere la tradizione, è la sposa che si fa desiderare ed arriva in ritardo.”
  
A Giampaolo Pansa e Luca Telese, giornalisti della
sponda sinistra del mondo, che, con i loro scritti,
non permettono l’oblio degli sconfitti dell’altra riva.
13/08/2008

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 15
 
E venne il tempo di sposarsi per Monica e Vittorio. Non fu una decisione presa senza patimenti, la più riluttante era Monica perché aveva ancora dei dubbi sulla fedeltà del compagno. Sì, mi sembra cambiato, pensava, però come faccio ad essere sicura che al primo svolazzare di qualche gonna, gonna non di mia proprietà, Vittorio non perda la testa? E quando Vittorio le chiese di sposarlo, prima di rispondere sì, spiegò al convivente che considerava il matrimonio indissolubile, quindi, caro Vittorio, per favore, non sposarmi se non ritieni di starmi sempre accanto, non fregarmi un’altra volta. Vittorio replicò che non doveva temere nulla, sarebbe stato fedele per sempre. Incominciarono con entusiasmo i preparativi per la cerimonia, entrambi decisero di sposarsi in chiesa, più convinto Vittorio, un po’ titubante Monica, e superarono ogni problema, chi invitare, il ristorante, i confetti e tutto quanto gira attorno al rito nuziale, senza litigare. Si incagliarono, però, su un particolare che, di solito, non provoca attrito fra i futuri sposi: i testimoni. Normalmente si scelgono parenti stretti, il fratello, lo zio, oppure gli amici fraterni. Infatti, Vittorio prospettò a Monica di concedere l’onore della testimonianza ai rispettivi amici del cuore, Gianluigi detto Gigi e Tiziana. Erano i confidenti più fedeli, Gigi era quasi un fratello per Vittorio, mentre Tiziana era anche coetanea di Monica ed avevano sempre frequentato le stesse scuole, dall’asilo al liceo. Comprensibile, quindi, lo stupore di Vittorio quando la compagna si oppose alla proposta, stupore che aumentò considerevolmente, quando Monica disse “il mio diniego riguarda Gianluigi perché sono felicissima di chiedere a Tiziana di testimoniare. Se vuoi invitare Gianluigi al matrimonio, fai pure, non ho nulla in contrario, ma come testimone no, non lo voglio davanti all’altare con noi e soprattutto non lo voglio a ridosso di Tiziana”. Un simile netto diniego merita una spiegazione, affinché chi legge possa giudicare con cognizione. Gigi era innamorato di Tiziana, ma dire innamorato non rende proprio l’idea perché Gigi sbavava per Tiziana. Anzi, più di innamoramento bisognerebbe parlare di deificazione, perché per Gigi Tiziana era l’incarnazione di una dea della bellezza. E come dea doveva essere adorata, esaudita in ogni modo. Tiziana naturalmente si era accorta dell’infatuazione di Gianluigi e, senza l’intenzione di ricambiare l’affetto, sfruttava sfacciatamente il poveretto. Per esempio, nelle riunioni fra amici, era facilissimo osservare lei che si comportava come se avesse un cameriere personale, Gigi mi servi da bere, Gigi, ho lasciato il beauty in auto, me lo vai a prendere, e così per tutta la sera. Memorabile quella volta che la combriccola di amici si era recata in gita in Liguria. Tiziana aveva portato con sé anche il suo cane, un gigantesco terranova tutto nero e giocherellone. Qualcuno disse, non senza cattiveria, che Tiziana aveva di fianco i suoi due cani, uno intelligente, quello con quattro zampe, mentre l’altro era solo fedele. E quella gita nel Golfo di Lerici confermò le malelingue perché Tiziana salì a bordo di un grosso motoscafo, grosso ma non tanto da poter ospitare tutta la comitiva, e lasciò a terra il terranova e anche Gigi con l’incarico di custodirlo. Un intero pomeriggio a spasso con un cane enorme, pesava circa settanta chili, instancabile, su e giù per le strade del golfo, sbavante e allegrone, non negava una bella leccata a chiunque incontrasse, tanto gli insulti se li beccava Gigi. Quando Tiziana ricomparve, ed era ormai il tardo pomeriggio, neanche un ringraziamento, anzi, non mancò di indicare a Gigi come il cane fosse tutto sporco, con il pelo infangato. Vittorio cercava di aiutare l’amico, anche se il suo comportamento gli sembrava incomprensibile: Vittorio aveva sempre avuto successo con le donne, non era il più indicato per capire l’atteggiamento servile di Gianluigi. Soprattutto non concepiva come si potesse essere innamorati di una donna senza dichiararglielo. Infatti, Gigi non aveva mai svelato i suoi sentimenti e spiegava a Vittorio che il suo atteggiamento era giusto, alla fine Tiziana avrebbe compreso il suo amore devoto. Come no, pensava Vittorio, Tiziana ha già capito tutto e ti tratta come meriti, come uno zerbino. E proprio così lo stava apostrofando, ora, Monica: “non voglio quello zerbino come tuo testimone al mio matrimonio. Ma ci pensi, noi lì davanti all’altare e lui che lancia i suoi sguardi adoranti verso Tiziana, chissà le risate che si faranno gli altri invitati. No, è il mio matrimonio, io devo essere al centro dell’attenzione, non lo voglio”. Messa così la questione, Vittorio dovette riconoscere che Monica non aveva tutti i torti. Pensava, inoltre, che una possibile soluzione sarebbe stata mantenere Gigi come testimone e sostituire Tiziana, verso la quale aveva un segreto rancore. Vittorio non aveva dimenticato la mattina di quel giorno che gli cambiò la vita, quella mattina nella quale Monica l’aveva scaricato dopo il suo tradimento della notte precedente e subito prima dell’investimento mortale di Laura. Appena sceso dalla macchina, nel posteggio della Ticosa, si trovò di fronte Tiziana, anche lei lavorava a Como e spesso si incrociavano, ma quella mattina Tiziana non rispose al saluto di Vittorio e, fissandolo negli occhi con uno sguardo carico di tutto l’odio di questo mondo, salì con il tacco della sua scarpa, a spillo e lungo almeno otto centimetri, sul piede sinistro di Vittorio. Mentre caricava tutti suoi sessanta chili abbondanti sul tacco, per procurare più dolore possibile al malcapitato gli disse: “bastardo, non ti meriti un gioiello come Monica, ritieniti fortunato, il tacco avrei voluto ficcartelo in un altro posto”. Il tapino strinse i denti per non urlare a causa del male e strinse anche le mani per non allargarle sulla faccia di Tiziana perché era un traditore incallito, ma mai avrebbe alzato una mano su una donna. Non disse nemmeno una parola, si limitò a fronteggiare lo sguardo adirato di Tiziana e aspettò che scendesse dal suo piede e se ne andasse soddisfatta ed ancheggiante. Ma se la legò al dito, prima o poi si sarebbe vendicato. Certo, ora aveva l’occasione per ricambiare la cortesia, però non se la sentiva di chiedere a Monica un simile sacrificio: era la sposa, la sua sposa, non voleva rattristarla chiedendole di rinunciare all’amica in un momento così unico. Mentre Vittorio rimuginava questi pensieri, Monica esclamò “perché non concedi l’onore di essere il testimone al tuo nuovo amico, il Visionario?” In effetti, Vittorio aveva dapprima considerato anche questa possibilità, ma l’aveva scartata temendo che Libero, il Visionario secondo Monica, sarebbe stato rifiutato dalla sua compagna a causa del suo carattere particolare. Invece ora era lei a consigliarglielo, incredibile. Vittorio rimase in silenzio per alcuni minuti, picchiando i polpastrelli della mano destra sul bracciolo della poltrona, segno di profonda concentrazione, e poi uscì con un "va bene, mi hai convinto, Libero verrà a trovarmi proprio stasera, vedremo se accetterà".
Libero era felicissimo del futuro matrimonio perchè, senza mai dire nulla a Vittorio e soprattutto a Monica, ragazza dotata di artigli affilati, non apprezzava la convivenza dei due. Secondo il suo pensiero, se due si amano devono sposarsi, poche storie. Non ragionava così per le sue profonde convinzioni religiose, anzi il ritorno alla fede cattolica aveva semmai confermato il suo modo di pensare. Libero aveva conservato, del suo passato marxista, un rispetto quasi adulatorio della Costituzione italiana. E l'articolo 29 recita appunto: la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare. Quindi, caro Vittorio e Monica, sposatevi e create una bella famiglia, possibilmente numerosa, una società naturale come dice la nostra bella Costituzione. Nonostante ciò, Libero non si attendeva proprio la proposta dell’amico, proposta gradita, che lo inorgogliva, ma inaspettata. Naturalmente chiese spiegazioni anche perché Vittorio gli aveva preannunciato la sua intenzione di chiedere a Gigi di testimoniare. Vittorio spiegò brevemente come Monica gli avesse fatto cambiare opinione e che, entrambi, avevano considerato di risolvere il problema chiedendogli di essere il testimone: “sei la seconda scelta” disse Vittorio, “ non lo nego, e spero che tu accetterai lo stesso”. Libero appoggiò i gomiti sul tavolo e le mani, incrociate, sotto il mento e dopo alcuni secondi di meditazione disse: “premesso che alcune donne non si limitano a volere legittimamente sposare un uomo, ma desiderano, con forza, cambiarlo, sono felice di testimoniare la vostra costruzione di una solida famiglia”. In questa frase c’era tutto Libero, il polemista disposto a qualsiasi cosa, anche a litigare con la futura moglie del suo amico, pur di esprimere la sua opinione. Infatti, Monica si chiese se non avesse sbagliato a consigliare il maledetto Visionario al suo prossimo marito, d’altra parte aveva ormai imparato che Libero, pur non avendo peli sulla lingua, era profondamente leale; duro, diretto ma leale. Ad essere precisi era schietto con Vittorio e non con lei, però era sempre meglio lui di un invertebrato come Gianluigi. Di conseguenza trattenne la voglia di rispondere per le rime e sorridendo se ne uscì con un “bravo Libero, dimostri di conoscere le donne, chissà come te la sei spassata in gioventù”. Libero alzò la testa con uno scatto e la mosse su e giù dicendo “un giorno vi racconterò la mia gioventù, di sicuro non mi comportavo come quell’imbalsamato di Gigi. Del resto mi sembra che i giovani d’oggi non sappiano interagire con le donne. Colpa loro, non leggono, non s’informano. Quanti hanno letto il fondamentale “Il rosso e il nero” di Stendhal, chi sa come Julien Sorel conquistò Mathilde de la Mole?". Fra i motivi del ben celato astio di Monica nei confronti di Libero c’erano proprio queste continue citazioni letterarie. In verità, l’astio nascondeva l’invidia per quell’uomo senza titolo di studio ma con una voglia inesauribile di conoscere che l’aveva reso, nel suo mondo piccolo, un erudito. Monica annuì come se conoscesse tutto di quel romanzo francese (era francese Stendhal?) e intanto si memorizzò il titolo del libro: di sicuro l’avrebbe letto per scoprire come tale lettura avrebbe potuto influire su Gigi e sul suo atteggiamento con le donne.
29/12/2007


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 14
 
La discussione di quella sera di fine secolo fu ricordata a lungo perché, per la prima volta, non finì con un litigio fra Libero e Guido detto Bartali. I due contendenti rimasero su opinioni contrastanti, ma almeno si confrontarono come se fossero due gentlemen inglesi al circolo del golf e non in un bar della collina comasca frequentato da avvinazzati e perditempo. Gli appassionati di diverbi ed insulti rimasero delusi, però l’argomento dello scambio di vedute non era proprio adatto alle urla. Si parlava, infatti, della recente morte di Roberto, della sua smisurata sofferenza. Guido sottolineava il continuo aumento delle dosi di morfina per attenuare il dolore. I medici non avevano più speranze di salvarlo, cercavano solo di alleggerirgli i patimenti. La lunga malattia di Roberto servì a Guido per esprimere con passione che “l’unica cosa certa è la morte: speriamo almeno che giunga il più tardi possibile, in modo rapido ed indolore. Tutto il contrario di quello che è capitato al povero Roberto, per intenderci. Ma vi ricordate Ciccillo, quel terruncello silenzioso? E’ stramazzato proprio qui, morto ancor prima di picchiare sul pavimento. E senza nessun sintomo premonitore, aveva appena finito di giocare a carte, per la verità aveva perso in malo modo, il suo socio storico, il Piffaretti, lo aveva insultato bonariamente. Però l’infarto, anche se fulminante, dicono che sia doloroso, allora meglio ancora la fine fatta dal Dino, rammentate? Stava andando a Milano c’è stato un salto di corsia e si è trovato con un’auto sopra la sua e la testa staccata di netto, morte più istantanea di così non si poteva proprio pretendere”. A sentire queste parole, Pompeo si alzò dal suo tavolo, dove stava sorseggiando un aperitivo, e uscì velocemente dal locale; argomento troppo scomodo per un tremebondo come lui. Mentre usciva pensava che quel giorno il karma non gli era per nulla favorevole, e poi, tutti quei pianeti disposti disastrosamente, un cattivo quadro astrale, avrebbe fatto meglio a rimanere a casa. Invece Libero disse “Guido, non ci crederai, ma fino a qualche giorno fa ti avrei dato sicuramente ragione. Oggi no, la penso diversamente: ho cambiato opinione grazie agli scritti del mio nuovo filosofo di riferimento. E’ un tedesco, fortissimo in teologia, anzi, lui voleva ritirarsi nella sua amata Baviera per approfondire gli studi teologici, ma non gli è stato possibile perché il suo principale gli ha assegnato un incarico di grande responsabilità. E non poteva rifiutare un simile impegno.”.
Urca” interloquì Guido “e chi sarebbe questo fenomeno?”
Il Cardinale di Santa Romana Chiesa Joseph Ratzinger” rispose Libero.
Guido, fissandolo con uno sguardo che esprimeva tutto il suo stupore, disse: “La tua estrosità è senza limiti, un cardinale come filosofo di riferimento, addirittura. L’ho già sentito questo Ratzinger, è il capo dell’Inquisizione, mi sembra di aver letto da qualche parte che affermava l’esistenza del diavolo. Permettimi di dubitare di uno così”
Caro Bartali” lo interruppe, ma con garbo, Libero, “innanzi tutto Ratzinger è il Prefetto della sacra congregazione per la dottrina della fede, congregazione che fino agli anni sessanta era detta Inquisizione. E’ il custode dell’integrità della fede cattolica. Poi, dovresti concordare con me che la vera difficoltà è credere in Dio e, per noi cristiani, essere convinti che Dio si è fatto uomo ed è morto in croce per noi. Questa è la vera enormità, al confronto la presenza del demonio è una quisquilia. Invece sono sicuro che al cardinale Ratzinger non sarà mai perdonato questa frase: il marxismo, non la speranza ma la vergogna del nostro tempo; è per questo severo giudizio che è attaccato, altro che il diavolo. Però, come sempre mi succede con te, stiamo divagando, io volevo confutare la tua affermazione sulla morte che ci colga senza preavviso. Devi sapere che sto leggendo “Il rapporto sulla fede”, l’intervista rilasciata dal cardinale Ratzinger a Vittorio Messori. Il libro è stato pubblicato nell’anno 1985, ma io lo sto divorando, con colpevole ritardo, solo ora. Un concetto mi ha talmente colpito da doverlo imparare a memoria. Dice Ratzinger che la morte è stata circondata dal silenzio, dalla paura o dal tentativo di banalizzarla. Per secoli la Chiesa ci ha insegnato a pregare perché la morte non ci sorprenda all’improvviso, dandoci tempo per prepararci; ora è proprio la morte improvvisa che viene considerata una grazia. Ma non accettare la morte significa non accettare e non rispettare neppure la vita. Questo dice il cardinale e questo ora io penso: che la morte arrivi, il più tardi possibile, spero, ma non fulminea affinché io mi possa preparare degnamente.”.
Guido guardò Libero senza profferire parole: atteggiamento molto strano perché, di solito, nell’accaloramento della discussione rispondeva lestamente, in lui lo spirito polemico sovrastava sempre il ragionamento. Infine, disse: ”no, Libero, non mi convinci. Innanzi tutto non vedo quale collegamento ci sia fra l’accettare la morte e il rispetto della vita e poi, soprattutto, un simile pensiero può essere espresso solo da chi crede nella vita eterna. Per me la morte è la fine di tutto, dopo c’è solo il nulla. Gradirei entrare nel nulla senza accorgermi del passaggio.”.
Con calma Libera affermò che “è vero, credere nell’Aldilà aiuta nel non temere la morte, dopo tutto è un passo obbligato, l’ultimo, prima della risurrezione. Però anche gli antichi romani, prima dell’avvento di Cristo, pensavano che una bella morte fosse una degna conclusione della vita. La banalizzazione del decesso è tipica dell’epoca attuale, nella quale, almeno nelle nostre terre, si è raggiunto un notevole benessere. Con il benessere, e la mancanza delle epidemie e delle guerre del passato, si è modificata la percezione dell’esistenza, la morte non incombe sulle nostre teste, anche se a volte compare all’improvviso ad inquietare chi resta, considera, per esempio, gli incidenti stradali. Ritengo che Ratzinger voglia intendere questo quando parla di banalizzazione, di silenzio e paura. Mentre manca quello che serve realmente, la preparazione all’inevitabile trapasso”.
Ancora con questo cardinale”, ribatté Guido, “non mi sarei mai aspettato che tu dipendessi così tanto dai preti. Ma dove è finito l’ateo oltranzista che conoscevo? Quel Libero che considerava la religione un prodotto buono per le vecchiette? Appunto, gli anziani, non è che invecchiando ti sei rincitrullito un po’ e, temendo in cuor tuo che ci possa essere un Aldilà, metti le mani avanti, non si sa mai? Potrei citarti tanti esempi di uomini con un passato da miscredenti diventati, sul finire delle loro esistenze, degli incalliti baciapile. E’ anche il tuo caso?”.
Libero sorrise mentre rispose “sicuramente sono un candidato alla demenza senile, però ti posso assicurare che il mio riavvicinamento alla fede non dipende dall’età, o dalla paura. Ero ancora relativamente giovane quando, leggendo Dostoevskji, mi sono posto il problema dell’esistenza di Dio. Quella frase, senza Dio tutto è permesso, mi sconvolse l’esistenza. No, non scherzo, mi ha sconvolto davvero. Come tu ben ricordi ero un ateo convinto dalle idee di Marx nelle quali vedevo la possibilità di poter realizzare il paradiso in terra” e qui Guido lo interruppe con la frase “certo che lo rammento, ti consideravi, dopo Marx e Lenin, il terzo marxista del mondo, la modestia non ti è mai mancata”. Sorrise ancora Libero, “sì, è tutto vero, non rinnego nulla di quanto ho fatto in quegli anni, ma provo orrore di quel che pensavo allora. Quando, studiando la storia, senza i paraocchi del marxismo, mi resi conto dei terribili danni provocati dal comunismo e, soprattutto, compresi il forte legame fra le due ideologie del novecento, comunismo e nazismo, l’essere entrambe deicide, capii nella loro essenza le parole di Dostoevskji. Il successivo passo è stato intendere che Dio non è disgiunto dalla sua Chiesa, e di questo devo ringraziare Ratzinger: concetti come quello della continuità apostolica che unisce Gesù Cristo al suo Vicario a Roma e, attraverso il Papa, a tutta la Chiesa Cattolica, mi sono finalmente chiari. E ora, solo ora, posso pregare con la sicurezza di essere penetrato nel significato profondo: credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili. Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica e aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.”
Vi assicuro che di cose strane ne succedono in collina, non meravigliatevi se un personaggio come Libero declama con la sua voce stentorea la bimillenaria professione di fede cattolica in un bar davanti ad una platea d’avventori nella quale non mancano gli incalliti bestemmiatori. Nessuno osò commentare le parole di Libero e non perché queste fossero condivise ma perché tutti comprendevano l’estrema convinzione con la quale erano state dette.
Infine, il solito Guido detto Bartali ruppe il silenzio: dopo aver scosso con lentezza la testa proferì  “ma qui nessuno vuole parlare di calcio? O di donne? Vanno bene anche le donne”.
31/10/2007

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 13
 
Un modo sicuro per rovinarsi l’esistenza è quello di aver paura delle malattie. Che bisogno c’è di preoccuparsi di un eventuale malanno quando si sta bene e si è nel fiore degli anni? Non sto parlando di chi fa una vita spericolata ma di persone con un modo di vivere salutare. Pompeo non fuma, non beve, è un buon camminatore, non è un vorace divoratore di prelibatezze anche se non disdegna la buona cucina. Ha avuto la fortuna di non avere avuto problemi nel corso della sua vita, né di ordine fisico né famigliare. Ed adesso me lo trovo di fronte, mentre lo invito a bere un caffè, che mi risponde “no, grazie, ma ho la tachicardia, al massimo mi prendo un decaffeinato”. L’altro giorno aveva il tremore alle mani, motivo sufficiente per negarsi un caffè, invece la settimana scorsa era reduce da una serie di notti insonni, quindi il caffè si poteva bere, non avrebbe influito sulla sua fisiopatologia. In compenso Pompeo si beve tutto quello che dicono televisioni e giornali, quindi non mangiava carne bovina quando scoppiò il caso della mucca pazza e adesso ha appena riammesso i polli nella sua dieta dopo un anno di esclusione per timore dell’influenza aviaria. Si lava continuamente le mani, in modo ossessivo, per eliminare possibili contaminazioni batteriche. E se nella conversazione fra amici capita di parlare di malattie, quasi mai partecipa attivamente alla discussione ma si pone in ascolto e non si perde nulla di quanto viene esposto. Esprime però un garbato dissenso quando ci si addentra nei particolari patologici o quando si affronta quello che lui ritiene il massimo pericolo: il cancro. Solo una volta l’avevo visto alterato quando Libero, per fargli comprendere quanto fosse sbagliata la sua paura della malattia, gli disse “ma non sai che c’è una teoria ben argomentata sulla possibilità che molti tipi di tumori siano di natura psicosomatica e quindi, con la tua spropositata angoscia, non esorcizzi la malattia ma puoi invece provocarla?” Pompeo divenne tutto rosso, replicò con voce balbettante a causa dell’ira “Libero, la tua teoria mettila dove so io, smettila di sentenziare su tutto, già rompi con il tuo Dio, sembri un talebano, ci manca solo che ti trasformi in medico”. La risposta sgarbata dimostrava che Libero aveva toccato un nervo scoperto, cioè l’intolleranza di Pompeo verso chi gli faceva notare il suo timore di ammalarsi. A ciò si aggiunge anche il perenne attrito fra i due dovuto al fatto che Pompeo giudicava in modo sbagliato Libero: pensava che fosse un bigotto intollerante, non comprendeva il profondo tormento  dell’uomo alla ricerca della fede. Libero ci metteva del suo nel non farsi amare, con il suo linguaggio tagliente e pieno di sarcasmo che persone permalose come Pompeo scambiavano per una derisione del pensiero altrui. Sarebbe finita a male parole se non mi fossi interposto fra i due riuscendo a fare da paciere. Però il problema rimaneva, Pompeo era troppo spesso vittima delle sue paure e le trasmetteva agli amici: sembrava che, con il continuo spiegare i sintomi delle sue malattie immaginarie, chiedesse un aiuto ai confidenti e cercasse una rassicurazione. Senza risultati perché la sua paranoia resisteva a qualsiasi parola di conforto.
Com’era invece diverso Alberto, l’atletico Alberto con il suo fisico possente. Sembrava il ritratto della salute quando all’ennesima donazione di sangue, fin da giovane offriva sangue due volte l’anno, il medico gli disse “Alberto, ci sono dei problemi, dovresti fare degli esami più approfonditi”.  Alberto si trovò dalla sera alla mattina in un girone infernale di ospedali, medici, cure. E percentuali. Un primario gli ribadì “il tuo tumore ha una buona percentuale di guarigione, fra il settanta e l’ottanta per cento, ma per guarire dovrai fare molta chemioterapia”. E numeri, quelli dei globuli bianchi. La sua vita ora era scandita dai giorni di cura: prima ricoveri in ospedale poi day hospital in oncologia. Non parlava mai esplicitamente della malattia, si limitava a dire “non ci sarò nei prossimi tre giorni” e tutti intendevano che in quei giorni sarebbe stato ricoverato, però si capiva benissimo che ogni suo pensiero era per quel male che si era inserito, ospite indesiderato, nel suo organismo. E nei suoi occhi si percepiva la determinazione del lottatore, dell’agonista che non voleva perdere la partita, partita che non contemplava il pareggio. Noi amici partecipavamo alla battaglia nell’unico modo possibile: adoperandoci per fargli sentire tutto il nostro affetto virile, dimostrandogli con la nostra silenziosa presenza che facevamo tifo per lui. Poca roba, è vero, ma capivamo che Alberto apprezzava il nostro sforzo corale. Solo uno dei suoi amici non partecipava: Pompeo. Questi, quando seppe della malattia, cercò in tutti i modi di evitare contatti con Alberto. Quelle poche volte che non riuscì a schivarlo, fece trapelare tutto il suo imbarazzo. Un impaccio così evidente che, alla fine, anche Alberto preferì non incontrarlo, schivando ogni possibilità di incontro. L’atteggiamento di Pompeo non era dovuto al timore di poter essere contagiato, la sua ossessione delle malattie non raggiungeva simili aberrazioni, ma per Pompeo Alberto rappresentava la prova incontrovertibile che il cancro esisteva e colpiva a casaccio, anche persone all’apparenza sanissime. Quindi, a maggior ragione, poteva trafiggere anche lui, Pompeo. Di conseguenza era molto meglio evitare Alberto perché ogni incontro stimolava negativamente la psiche del pauroso malato immaginario. Per fortuna Alberto non diede importanza all’ignobile comportamento di Pompeo, sapeva delle sue manie e, anzi, era contento di non avere più a che fare con un individuo talmente egocentrico. Nella migliore delle ipotesi non gli era di nessun aiuto, nella peggiore avrebbe contribuito a trasmettergli ansia, proprio ciò di cui Alberto non aveva alcun bisogno.
Alberto lottò a lungo, fu meticoloso nel rispetto delle cure e del programma terapeutico. Non cadde neanche per un attimo nello sconforto, meno che mai nella paura. Come un soldato nel campo di battaglia non si chiedeva perché combatteva e contro chi si scontrava. Aveva un solo scopo: combattere, mai indietreggiare, piuttosto cadere sotto il fuoco nemico.
Infine, Alberto fu sconfitto. E noi vecchi amici lo accompagnammo nell’ultimo viaggio. Tutti in fondo al corteo funebre, dove spesso la gente guarda in giro, come se fosse in gita, o chiacchiera e qualche volta ride sommessamente. Nulla di grave o di scorretto, nei funerali solo gli applausi sono stonati e sapevamo che il nostro vecchio compagno di baldorie avrebbe apprezzato. C’eravamo tutti: mancava solo Pompeo. Ufficialmente era impegnato nel corso di yoga ma il vero motivo si doveva cercare nella sua idiosincrasia per le processioni funebri, per tutto quanto gli ricordasse la morte ed il pensiero che, inevitabilmente, prima o poi il trapasso avrebbe riguardato anche lui. Lo yoga era una scoperta recente di Pompeo, sempre alla ricerca di qualcosa che alleviasse la sua ansia. Aveva iniziato il corso nonostante il mio rimbrotto “ma cosa credi di trovare nell’ascetismo orientale, sono ormai duemila anni che dall’Oriente non arriva nulla di buono”. Ancor più caustico Libero che non si lasciò scappare l’occasione di attaccare l’ateo Pompeo: “come diceva Gilbert K. Chesterton, quando si smette di credere in Dio non è vero che non si creda più a nulla, si crede a tutto”. Libero iniziò il corteo silenzioso, con il volto taciturno che fissava l’asfalto. Poi, quasi borbottando, mi disse: “La sofferenza di Alberto, non lo nego, mi fa dubitare dell’esistenza di Dio. Perché il Signore permette un simile patimento? Però penso anche che l’Onnipotente si è fatto uomo e ha sopportato un supplizio come la crocifissione. E allora mi piace pensare che sia come la parabola dei talenti, a qualcuno vengono dati cinque talenti, ad altri uno e verranno giudicati secondo le specifiche capacità. Ad Alberto è toccato il massimo dei talenti di sofferenza”. Detto questo Libero ritornò silenzioso ma con il volto rasserenato. Mi piace Libero, altro che bigotto, le sue riflessioni sono sempre interessanti. E fanno ragionare. Infatti, per tutto il percorso del funerale, penso alla parabola dei talenti ed alla interpretazione di Libero. Certo, non ci sono dubbi, Alberto ha ricevuto il massimo di sofferenza mentre Pompeo ha avuto in sorte il minimo, diciamo uno. Ma non mi sembra che ne faccia un buon uso, la sua mente contorta lo porterebbe a pensare di averne avuta anche lui almeno dieci. Il cervello umano, che mistero. Quale strano meccanismo ha convinto Pompeo di poter prendere tutte le malattie di questo mondo? E dove Alberto ha trovato la forza di sopportare le inaudite sofferenze provocate dal cancro? Sì, mi dico mentalmente, mentre il corteo funebre giunge al cimitero, il cervello è davvero complicato. Il Creatore si è divertito a crearlo così: le circonvoluzioni cerebrali sembrano un labirinto, non c’era modo migliore per rappresentare il groviglio di idee che si formano al suo interno.
17/01/2007