PERSONAGGI
DI UN ALTRO SECOLO – 18
Il
tragitto del viaggio di nozze fu ideato completamente da Vittorio.
Infatti, Monica gli disse “finora mi sono occupata di tutte le
incombenze e ti ringrazio per avermi lasciata sbizzarrire, ma mi
sembra giusto che sia tu a scegliere dove andare dopo il matrimonio:
io ti seguirò, dovunque mi condurrai“. Erano fatti così i due
sposini, non sceglievano assieme, magari dopo elaborate discussioni,
ma uno decideva e l’altro si adattava. Strano meccanismo, ma
funzionava e per Monica fu più difficile esporre alle amiche il
percorso che accettarlo. Come spiegare, a chi si aspetta un’assolata
isola caraibica o una bianca spiaggia maldiviana, la scelta di
Vittorio, un vagare fra città d’arte italiane alla ricerca delle
testimonianze lasciate dai secoli? Difatti non capirono, non potevano
comprendere, tutte convinte che un viaggio nuziale dovesse essere
all’insegna di sole, svago e sesso, non necessariamente in questo
ordine. Finì che Monica sbottò con un “state zitte, antipatiche
malelingue, Vittorio me lo sono sposato io e non azzardatevi a
contestare le sue preferenze”. In effetti, sembrava un viaggio
studio perché Vittorio elaborò un percorso che si snodava lungo la
costa tirrenica o nelle immediate vicinanze: una veloce discesa in
Campania, a Pompei, e poi una lenta risalita per la penisola,
passando per Roma, Viterbo e alcune città toscane. L’obiettivo di
Vittorio era quello di andare alla ricerca di luoghi fondamentali
della storia e della cultura italica, un’osservazione diretta del
nostro passato, prossimo e remoto, nella convinzione che fosse utile
e di ulteriore stimolo alla loro cultura.
Comprensibile,
quindi, iniziare dagli scavi archeologici di Pompei, dalla città
dell’era romana pietrificata dall’eruzione del Vesuvio nell’anno
79, descritta dal comasco Caio Plinio il Giovane e che costò la vita
all’illustre zio Plinio il Vecchio. Una volta conosciuto
l’itinerario, Monica si era organizzata comprando le più
aggiornate guide turistiche perché voleva essere all’altezza del
più preparato compagno. Sono sua moglie, si diceva, è giusto
assecondarlo nelle sue passioni, soprattutto in questa che mi
permette di conoscere nuovi paesaggi e culture. Dopo Pompei
risalirono a Roma, città che entrambi avevano già visto, anche se
separatamente, però Vittorio voleva visitare l’EUR, il quartiere a
sud della città costruito nei primi anni quaranta per l’esposizione
universale che avrebbe dovuto tenersi nel 1942 e che invece fu
annullata a causa della guerra. Vittorio era un estimatore
dell’architettura razionalista italiana, una passione che lo
accompagnava dall’infanzia e dovuta all’ammirazione per le opere
di Giuseppe Terragni. Girando per Como era rimasto impressionato da
opere come Nova Comum o l’ex Casa del fascio di Piazza del Popolo,
si era documentato moltissimo su quel periodo ed ora aveva
l’occasione di vedere, dal vivo, opere come il Palazzo dei
Congressi e soprattutto il Palazzo della Civiltà Italiana, meglio
conosciuto come il Colosseo Quadrato. Monica seguiva il marito in
questo peregrinare nel corso dei secoli con crescente fervore, un
entusiasmo da neofita. Le piaceva il brusco passaggio da una città
pietrificata dalla lava a questo quartiere costruito per stupire.
Certo, da bravi innamorati non si negarono una passeggiata per Piazza
Navona o sulla romantica scalinata di Trinità dei Monti, e
lanciarono, spalle rigorosamente mostrate alla fontana, le monetine
nella Fontana di Trevi. Invece non visitarono la Roma papalina, a
parte la Basilica di San Paolo fuori le mura che non avevano mai
visto, ma si rifecero nell’ambito delle costruzioni religiose a
Viterbo, città piena di edifici di costruzione papalina. Monica
scoprì che la parola conclave fu coniata qui, quando, nel Duecento,
i cardinali che dovevano eleggere il successore di Clemente IV si
riunirono inutilmente per tre anni, ed allora il popolo viterbese,
sdegnato da tanto indugio, giunse all’energica decisione di
chiudere a chiave i cardinali nella sala dell'elezione (clausi cum
clave), nutrirli a pane e acqua, e scoperchiare il tetto lasciandoli
alle intemperie, finché non avessero eletto il nuovo Papa. Dopo
Viterbo, un nuovo salto nel passato, nell’etrusca Volterra. Monica
fu estasiata da questa cittadina posta su un colle, piccola ma
completa: da buona lombarda abituata ai climi umidi e piovosi, si
inebriò nel clima ventoso e secco di Volterra. Vittorio spiegò alla
sposa, mentre guardavano il borgo dalle balze, la zona franosa che
incide il colle su cui essa è disposta, che Volterra era un perfetto
paradigma dell’Italia: splendida ma sempre sul punto di rovinare,
di franare.
Infine,
l’ultima tappa del viaggio nuziale fu Lucca. Nessuno dei due sposi
vi era mai stato, non era nemmeno nei programmi di Vittorio, in
verità era stato Libero a consigliarla all’amico, dicendogli “vai
a Lucca, ti sorprenderà, e poi è l’unica città toscana non
governata dai comunisti, già questa anomalia mi sembra un ottimo
motivo per farci una tappa.” Mai consiglio fu più azzeccato pensò
Vittorio quando entrò in quel gioiellino incassato fra verdi
colline. Splendida la cinta muraria che la circonda, splendidi i
palazzi e le torri. Splendida la piazza dell’Anfiteatro, dalla
forma ellittica e costruita sui resti di un antico anfiteatro romano-
Splendide le innumerevoli chiese come la Basilica di San Frediano dal
meraviglioso mosaico sulla facciata, la Chiesa di san Michele in
Foro, con decorazioni romaniche e verticalismi di ispirazione gotica,
e la Cattedrale di San Martino. Fu in questa ultima chiesa,
conosciuta anche come il Duomo di Lucca, che i nostri sposi subirono
la più forte emozione della luna di miele. Successe quando entrarono
nel transetto sinistro e videro il sarcofago raffigurante una giovane
donna, ai suoi piedi un cagnolino e, sui lati della tomba, numerosi
putti. Nonostante i secoli avessero lasciato segni sul volto della
statua, la bellezza del viso, i suoi tratti delicati e perfetti,
colpirono enormemente i due sposi. Vittorio pensò che gli autori
delle favole sulle belle addormentate risvegliate dai principi
vestiti d’azzurro avessero preso ispirazione da quel viso, tanto
che per un attimo ebbe la folle intenzione di baciarla, chissà,
magari si sarebbe svegliata. Poi tralasciò il proponimento,
dopotutto non era un principe, non aveva nessun titolo per svegliare
fanciulle assopite. Intanto Monica, mentre Vittorio fantasticava, si
informò subito su chi fosse la donna raffigurata: il manuale
riportava il nome di Ilaria del Carretto, figlia di Carlo del
Carretto, marchese di Savona e concessa in sposa al signore di Lucca,
Paolo Guinigi, il 3 febbraio 1403. Dopo aver partorito nel 1404 un
figlio, Ladislao, la giovane e bellissima signora diede alla luce
nell’anno successivo una bambina. Sfortunatamente dopo il parto, la
donna morì, gettando nello sconforto il marito. Paolo Guinigi
commissionò quindi allo scultore Jacopo della Quercia il sarcofago
in marmo raffigurante l’effigie dell’amata moglie, tramandandola
così nel corso dei secoli. Monica lesse queste notizie con un filo
di voce, ma in modo comprensibile anche per Vittorio, alternando lo
sguardo fra il libro ed il sarcofago. Poi, quando finì di leggere,
intercalò gli occhi fra il viso di Ilaria e quello del marito.
Infine proruppe in un pianto disperato. Lacrime copiose, singhiozzi e
gemiti. Vittorio dapprima guardò la sposa con un’espressione
stupita, poi comprese il motivo del pianto, gli passò per la mente
dapprima il desiderio di farla smettere e nell’attimo successivo
gli balenò il pensiero che anche lui avesse un ottimo motivo per
piangere e proruppe in lacrime ancor più traboccanti di quelle di
Monica. Non c’erano turisti in quel momento, nel transetto della
Chiesa, solo un custode che non si stupì più di tanto della
reazione esagerata della coppia. Sapeva quanto la statua di Ilaria
del Carretto colpisse l’immaginazione dei visitatori, anche
illustri, come Pier Paolo Pasolini che scrisse una poesia sull’opera
di Jacopo della Quercia …nessuno
scalpello potrà scalzare la mole tenue di queste palpebre. Jacopo
con Ilaria scolpì l’Italia perduta nella morte, quando la sua età
fu più pura e necessaria.
O come il critico d’arte e pittore inglese John Ruskin, vissuto
nell’Ottocento e che periodicamente tornava a Lucca per rivedere
quel volto e
i
suoi capelli, raccolti in ricche trecce (…); i suoi dolci occhi,
dai sopraccigli arcuati (…); l'assenza del dolce sorriso su quelle
labbra graziose (…); e tuttavia non è né morte né sonno, ma un
puro e casto ricordo.
Oppure, pensò il custode, avranno la Sindrome di Stendhal, quella
particolare sintomatologia che colpisce alcuni turisti messi al
cospetto di opere d’arte di particolare bellezza, sindrome che
colpì appunto lo scrittore Stendhal nel 1817, dopo una visita alla
Chiesa di santa Croce in Firenze. Nulla di tutto questo, Ilaria del
Carretto aveva solo contribuito a riaccendere gli incubi dei due
sposi: Monica vedeva davanti a sé una giovane madre morta nel dare
la vita mentre lei aveva scelto la facile scorciatoia dell’aborto.
Vittorio scorgeva nel viso perfetto di Ilaria un’altra faccia,
quello adolescente di Laura, che lui aveva spezzato investendola.
No,
non è facile dimenticare i propri tormenti. Piangete pure, cari
sposini, affinché le lacrime vi siano di sollievo, piangete su
questo sarcofago che raffigura una morta come se fosse una dormiente
tanto che il cagnolino aspetta il risveglio per scodinzolare e
saltarle in grembo.
11/01/09
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