martedì 14 agosto 2012

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 18
Il tragitto del viaggio di nozze fu ideato completamente da Vittorio. Infatti, Monica gli disse “finora mi sono occupata di tutte le incombenze e ti ringrazio per avermi lasciata sbizzarrire, ma mi sembra giusto che sia tu a scegliere dove andare dopo il matrimonio: io ti seguirò, dovunque mi condurrai“. Erano fatti così i due sposini, non sceglievano assieme, magari dopo elaborate discussioni, ma uno decideva e l’altro si adattava. Strano meccanismo, ma funzionava e per Monica fu più difficile esporre alle amiche il percorso che accettarlo. Come spiegare, a chi si aspetta un’assolata isola caraibica o una bianca spiaggia maldiviana, la scelta di Vittorio, un vagare fra città d’arte italiane alla ricerca delle testimonianze lasciate dai secoli? Difatti non capirono, non potevano comprendere, tutte convinte che un viaggio nuziale dovesse essere all’insegna di sole, svago e sesso, non necessariamente in questo ordine. Finì che Monica sbottò con un “state zitte, antipatiche malelingue, Vittorio me lo sono sposato io e non azzardatevi a contestare le sue preferenze”. In effetti, sembrava un viaggio studio perché Vittorio elaborò un percorso che si snodava lungo la costa tirrenica o nelle immediate vicinanze: una veloce discesa in Campania, a Pompei, e poi una lenta risalita per la penisola, passando per Roma, Viterbo e alcune città toscane. L’obiettivo di Vittorio era quello di andare alla ricerca di luoghi fondamentali della storia e della cultura italica, un’osservazione diretta del nostro passato, prossimo e remoto, nella convinzione che fosse utile e di ulteriore stimolo alla loro cultura.
Comprensibile, quindi, iniziare dagli scavi archeologici di Pompei, dalla città dell’era romana pietrificata dall’eruzione del Vesuvio nell’anno 79, descritta dal comasco Caio Plinio il Giovane e che costò la vita all’illustre zio Plinio il Vecchio. Una volta conosciuto l’itinerario, Monica si era organizzata comprando le più aggiornate guide turistiche perché voleva essere all’altezza del più preparato compagno. Sono sua moglie, si diceva, è giusto assecondarlo nelle sue passioni, soprattutto in questa che mi permette di conoscere nuovi paesaggi e culture. Dopo Pompei risalirono a Roma, città che entrambi avevano già visto, anche se separatamente, però Vittorio voleva visitare l’EUR, il quartiere a sud della città costruito nei primi anni quaranta per l’esposizione universale che avrebbe dovuto tenersi nel 1942 e che invece fu annullata a causa della guerra. Vittorio era un estimatore dell’architettura razionalista italiana, una passione che lo accompagnava dall’infanzia e dovuta all’ammirazione per le opere di Giuseppe Terragni. Girando per Como era rimasto impressionato da opere come Nova Comum o l’ex Casa del fascio di Piazza del Popolo, si era documentato moltissimo su quel periodo ed ora aveva l’occasione di vedere, dal vivo, opere come il Palazzo dei Congressi e soprattutto il Palazzo della Civiltà Italiana, meglio conosciuto come il Colosseo Quadrato. Monica seguiva il marito in questo peregrinare nel corso dei secoli con crescente fervore, un entusiasmo da neofita. Le piaceva il brusco passaggio da una città pietrificata dalla lava a questo quartiere costruito per stupire. Certo, da bravi innamorati non si negarono una passeggiata per Piazza Navona o sulla romantica scalinata di Trinità dei Monti, e lanciarono, spalle rigorosamente mostrate alla fontana, le monetine nella Fontana di Trevi. Invece non visitarono la Roma papalina, a parte la Basilica di San Paolo fuori le mura che non avevano mai visto, ma si rifecero nell’ambito delle costruzioni religiose a Viterbo, città piena di edifici di costruzione papalina. Monica scoprì che la parola conclave fu coniata qui, quando, nel Duecento, i cardinali che dovevano eleggere il successore di Clemente IV si riunirono inutilmente per tre anni, ed allora il popolo viterbese, sdegnato da tanto indugio, giunse all’energica decisione di chiudere a chiave i cardinali nella sala dell'elezione (clausi cum clave), nutrirli a pane e acqua, e scoperchiare il tetto lasciandoli alle intemperie, finché non avessero eletto il nuovo Papa. Dopo Viterbo, un nuovo salto nel passato, nell’etrusca Volterra. Monica fu estasiata da questa cittadina posta su un colle, piccola ma completa: da buona lombarda abituata ai climi umidi e piovosi, si inebriò nel clima ventoso e secco di Volterra. Vittorio spiegò alla sposa, mentre guardavano il borgo dalle balze, la zona franosa che incide il colle su cui essa è disposta, che Volterra era un perfetto paradigma dell’Italia: splendida ma sempre sul punto di rovinare, di franare.
Infine, l’ultima tappa del viaggio nuziale fu Lucca. Nessuno dei due sposi vi era mai stato, non era nemmeno nei programmi di Vittorio, in verità era stato Libero a consigliarla all’amico, dicendogli “vai a Lucca, ti sorprenderà, e poi è l’unica città toscana non governata dai comunisti, già questa anomalia mi sembra un ottimo motivo per farci una tappa.” Mai consiglio fu più azzeccato pensò Vittorio quando entrò in quel gioiellino incassato fra verdi colline. Splendida la cinta muraria che la circonda, splendidi i palazzi e le torri. Splendida la piazza dell’Anfiteatro, dalla forma ellittica e costruita sui resti di un antico anfiteatro romano- Splendide le innumerevoli chiese come la Basilica di San Frediano dal meraviglioso mosaico sulla facciata, la Chiesa di san Michele in Foro, con decorazioni romaniche e verticalismi di ispirazione gotica, e la Cattedrale di San Martino. Fu in questa ultima chiesa, conosciuta anche come il Duomo di Lucca, che i nostri sposi subirono la più forte emozione della luna di miele. Successe quando entrarono nel transetto sinistro e videro il sarcofago raffigurante una giovane donna, ai suoi piedi un cagnolino e, sui lati della tomba, numerosi putti. Nonostante i secoli avessero lasciato segni sul volto della statua, la bellezza del viso, i suoi tratti delicati e perfetti, colpirono enormemente i due sposi. Vittorio pensò che gli autori delle favole sulle belle addormentate risvegliate dai principi vestiti d’azzurro avessero preso ispirazione da quel viso, tanto che per un attimo ebbe la folle intenzione di baciarla, chissà, magari si sarebbe svegliata. Poi tralasciò il proponimento, dopotutto non era un principe, non aveva nessun titolo per svegliare fanciulle assopite. Intanto Monica, mentre Vittorio fantasticava, si informò subito su chi fosse la donna raffigurata: il manuale riportava il nome di Ilaria del Carretto, figlia di Carlo del Carretto, marchese di Savona e concessa in sposa al signore di Lucca, Paolo Guinigi, il 3 febbraio 1403. Dopo aver partorito nel 1404 un figlio, Ladislao, la giovane e bellissima signora diede alla luce nell’anno successivo una bambina. Sfortunatamente dopo il parto, la donna morì, gettando nello sconforto il marito. Paolo Guinigi commissionò quindi allo scultore Jacopo della Quercia il sarcofago in marmo raffigurante l’effigie dell’amata moglie, tramandandola così nel corso dei secoli. Monica lesse queste notizie con un filo di voce, ma in modo comprensibile anche per Vittorio, alternando lo sguardo fra il libro ed il sarcofago. Poi, quando finì di leggere, intercalò gli occhi fra il viso di Ilaria e quello del marito. Infine proruppe in un pianto disperato. Lacrime copiose, singhiozzi e gemiti. Vittorio dapprima guardò la sposa con un’espressione stupita, poi comprese il motivo del pianto, gli passò per la mente dapprima il desiderio di farla smettere e nell’attimo successivo gli balenò il pensiero che anche lui avesse un ottimo motivo per piangere e proruppe in lacrime ancor più traboccanti di quelle di Monica. Non c’erano turisti in quel momento, nel transetto della Chiesa, solo un custode che non si stupì più di tanto della reazione esagerata della coppia. Sapeva quanto la statua di Ilaria del Carretto colpisse l’immaginazione dei visitatori, anche illustri, come Pier Paolo Pasolini che scrisse una poesia sull’opera di Jacopo della Quercia …nessuno scalpello potrà scalzare la mole tenue di queste palpebre. Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia perduta nella morte, quando la sua età fu più pura e necessaria. O come il critico d’arte e pittore inglese John Ruskin, vissuto nell’Ottocento e che periodicamente tornava a Lucca per rivedere quel volto e i suoi capelli, raccolti in ricche trecce (…); i suoi dolci occhi, dai sopraccigli arcuati (…); l'assenza del dolce sorriso su quelle labbra graziose (…); e tuttavia non è né morte né sonno, ma un puro e casto ricordo. Oppure, pensò il custode, avranno la Sindrome di Stendhal, quella particolare sintomatologia che colpisce alcuni turisti messi al cospetto di opere d’arte di particolare bellezza, sindrome che colpì appunto lo scrittore Stendhal nel 1817, dopo una visita alla Chiesa di santa Croce in Firenze. Nulla di tutto questo, Ilaria del Carretto aveva solo contribuito a riaccendere gli incubi dei due sposi: Monica vedeva davanti a sé una giovane madre morta nel dare la vita mentre lei aveva scelto la facile scorciatoia dell’aborto. Vittorio scorgeva nel viso perfetto di Ilaria un’altra faccia, quello adolescente di Laura, che lui aveva spezzato investendola.
No, non è facile dimenticare i propri tormenti. Piangete pure, cari sposini, affinché le lacrime vi siano di sollievo, piangete su questo sarcofago che raffigura una morta come se fosse una dormiente tanto che il cagnolino aspetta il risveglio per scodinzolare e saltarle in grembo.
11/01/09

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