PERSONAGGI
DI UN ALTRO SECOLO – 11
La disperazione era la condizione
predominante in Vittorio. Lo era da quel novembre del 1998 quando
aveva provocato la morte di una ragazza, Laura. Indubbiamente una
morte non voluta, una sfortunata coincidenza di tempo, imperizia e
sfortuna ma tutto questo non serviva a mitigare il profondo sconforto
di Vittorio. Un misto di avvilimento e depressione lo avvolgeva,
l’avvilimento per essere stato il principale protagonista della
morte di Laura, la depressione per avere spezzato una giovane vita.
Non servivano a consolarlo le attenzioni degli amici tutti tesi a
spiegargli le attenuanti, dall’imprudenza della ragazza
nell’attraversare la strada alla giornata uggiosa con visibilità
ridotta, perché Vittorio si sentiva colpevole di quanto accaduto. A
chi lo consolava rispondeva, con uno sguardo fisso non sugli
interlocutori ma su un punto indefinito, con frasi come “la colpa è
solo mia, non dovevo passare con il giallo, dovevo attendere che
l’autobus ripartisse”. E fra gli amici non c’era più Monica,
la ragazza che lo aveva lasciato proprio la sera prima
dell’incidente. Non si fece viva neanche con una semplice
telefonata. Non aiutavano le incombenze burocratiche ed
investigative, dalla comunicazione dell’incidente all’assicurazione
alle convocazioni presso la Caserma dei Carabinieri. Soprattutto lo
danneggiava il continuo ricordo degli attimi successivi allo scontro
mortale: quando fu chiaro che Laura era priva di vita un cupo
silenzio scese sulla strada e Vittorio pensava di essere al centro di
un set cinematografico circondato dagli altri attori, le forze
dell’ordine, gli addetti del carro attrezzi che dovevano ritirare
la sua macchina posta sotto sequestro giudiziario, il carro funebre.
In un cerchio concentrico più esterno c’erano gli spettatori del
lugubre dramma i quali pur essendo silenziosi riuscivano, con il
semplice sguardo o con la mimica facciale, a fargli capire che era
lui il protagonista assoluto della tragedia: il colpevole. Dormiva
poco e male, con risvegli nel pieno della notte, madido di sudore e
con il respiro ansimante. Un passare continuo da assopimenti a lunghi
periodi con gli occhi sbarrati nel buio e nella mente il corpo di
Laura afflosciato sull’asfalto. Vittorio trascorse così i dieci
mesi intercorsi fra l’incidente ed il processo. La condanna era
ampiamente prevista e, infatti, il tribunale lo giudicò colpevole di
omicidio colposo. Per omicidio colposo si intende un delitto commesso
non volontariamente ma a causa di una negligenza od imperizia. Le
indagini avevano accertato che la macchina di Vittorio andava ad una
velocità fra i 58 ed i 63 orari, oltre il limite imposto in quella
via, con l’aggravante della presenza della fermata dell’autobus e
delle strisce pedonali, condizioni che dovevano comunque consigliare
di ridurre la velocità. La pena sancita fu di dodici mesi con il
beneficio della condizionale e la sospensione della patente per tre
mesi. Non fu la sanzione ad aumentare la disperazione di Vittorio,
era ampiamente prevista e sarebbe stata accolta come una giusta
condanna. Fu invece l’incontro con i genitori di Laura ad
accrescere lo smarrimento del giovane. Vittorio aveva cercato di
prendere contatto con i genitori subito dopo l’incidente ma alcuni
conoscenti glielo sconsigliarono: troppo prematuro un incontro,
meglio aspettare. Scrisse allora una lettera nella quale con parole
semplici ma intense cercò di esprimere tutto il suo dolore e il
profondo dispiacere per l’incommensurabile danno provocato. Non
ricevette nessuna risposta. Ora li aveva di fronte nell’aula del
tribunale; nessun contatto durante il processo, neanche uno sguardo.
Alla fine del processo si avvicinò ai genitori ma le sue buone
intenzioni furono bloccate dal padre di Laura che disse “vai via,
bastardo” e dallo sguardo della madre, uno sguardo nel quale si
registravano perentoriamente i sentimenti del disprezzo e
dell’orrore. Il suo avvocato lo trascinò via mormorandogli
“andiamo, non è il momento e, forse, non lo sarà mai”.
L’atteggiamento dei genitori di Laura fu l’ultimo colpo sul
precario equilibrio di Vittorio. Passò il resto della giornata
fissando il muro della casa, in un silenzio assoluto, senza mangiare
e bevendo brevi sorsi da una bottiglia di grappa. Poi, nel cuore
della notte, uscì dall’abitazione di Uggiate e si diresse, a
piedi, verso Como. La notte settembrina era tiepida, con uno spicchio
di luna crescente sufficiente per rischiarare la strada nei tratti
senza illuminazione. Quando sentiva avvicinarsi qualche automobile
Vittorio si scansava dalla carreggiata per paura che qualcuno lo
riconoscesse. Infine, quando ormai albeggiava, giunse a Monte
Olimpino e scese verso Como, superò Villa Olmo e si diresse verso
Cernobbio. Prima di giungere nel centro rivierasco, in un punto dove
la strada costeggiava direttamente il lago, superò il parapetto e
scese sulla leggera striscia di riva lambita dalle acque limacciose
del lago. Era deciso, basta con le sofferenze, meglio farla finita,
che le acque lavino le mie pene, il lago serve anche a questo. Con
questi tristi pensieri in testa Vittorio si accorse che non era solo
sulla riva perché, a circa dieci metri di distanza verso Como, c’era
un pescatore. Il rumore provocato dal salto della ringhiera distolse
il pescatore dal suo passatempo. I due si guardarono. Il pescatore
capì in un attimo le intenzioni di Vittorio. Piccole onde si
infrangevano sulla riva mentre i due uomini si scrutavano in
silenzio. Poi, fu il pescatore a distogliere lo sguardo da Vittorio
e, mentre tornava a fissare il lago, disse “fai quello che devi
fare ma fallo più in là, lontano da me, perché mi rovini il
divertimento”. A sentir profferire quelle parole Vittorio ebbe
l’impulso di sparire immediatamente: e, infatti, risalì sulla
strada e fece ritorno ad Uggiate. Tornato a casa si buttò a letto e,
per la prima volta dopo quel tragico giorno, riuscì a dormire senza
incubi, riassaporò il piacere di un sonno gradevole. Si svegliò di
pomeriggio inoltrato e subito ebbe l’impulso di spiegare a qualcuno
quanto gli era successo. Scartò tutti gli amici, i parenti,
l’avvocato. L’unico che poteva ascoltarlo e, magari, dargli
qualche consiglio era Libero. Sì, proprio l’ex ateo che incontrò
la fede leggendo uno scritto di Dostoevskij e che ora era alla
ricerca di un suo ruolo nella Chiesa. Non c’era nulla che potesse
unire i due uomini, divisi da interessi, prospettive e da un buon
numero di anni. Però a Vittorio piaceva il modo di comportarsi di
Libero il quale nascondeva sotto un atteggiamento burbero ed iroso un
gran cuore. Soprattutto fu colpito dal comportamento di Libero quando
si incontrarono la prima volta dopo l’incidente: Libero non disse
una sola parola ma gli diede una pacca sulla spalla e poi lo guardò
fisso negli occhi tenendogli contemporaneamente le mani sulle spalle.
Un linguaggio del corpo ed un atteggiamento virile, con lo scopo
evidente di trasmettergli coraggio, molto apprezzati da
Vittorio.
Dopo aver sentito il racconto di Vittorio, Libero sbottò
con un “ma cosa mi dici, ma lasciami stare, con tutti i problemi
che ho, ora devo risolvere la faccenda di don Giussani”. Vittorio
non si scompose neanche un po’, sapeva che Libero rispondeva sempre
citando le preoccupazioni del momento. Infatti Libero, nel suo
domandarsi se un credente, per essere completo, doveva appartenere o
no ad una Chiesa, si era dedicato allo studio della storia della
Chiesa Cattolica. Studio che aveva ormai completato ed ora, nella sua
inesausta ricerca, si era messo a studiare i movimenti religiosi.
Aveva risalito il corso dei secoli e in questo periodo stava
analizzando i movimenti sorti nel Novecento. La struttura mentale di
Libero era tale che non poteva essere colpito da quello denominato
Comunione e Liberazione: l’ex marxista che in ogni azione vedeva
l’aspetto politico fu affascinato dagli appartenenti al movimento,
i Ciellini, i quali, pur rimanendo fedeli all’insegnamento di
Cristo e della sua Chiesa, non avevano nessun timore a buttarsi in
politica, a schierarsi. Soprattutto fu attratto dall’impegno
profuso dai quei pochi Ciellini che conosceva nel difendere le
proprie convinzioni e la propria fede. Se questi sono così convinti
delle loro azioni, si disse, devo assolutamente studiare gli scritti
del loro fondatore, Don Luigi Giussani. L’incontro con Vittorio
avvenne proprio mentre aveva letto una ventina di pagine di un libro
di Giussani. Venti pagine e Libero non aveva capito nulla. Infatti,
disse a Vittorio, il quale non sapeva chi fosse Don Giussani, “perché
non comprendo quello che scrive? Io che ho letto, assimilato e
propagandato tutto Il Capitale di Marx, quel mattone di un libro,
quanti anni buttati via inutilmente e adesso, perché non capisco
quello che vuol dire questo prete brianzolo?” Libero andò avanti a
borbottare per altri cinque minuti poi, come se si fosse accorto solo
in quel momento del suo interlocutore, fissò Vittorio e lo apostrofò
con un “la colpa è tua perché sei un edonista”. Bene, pensò
Vittorio, ora parla del mio caso, dovrò pazientare ancora un po’,
sopportare le sue divagazioni, infine mi darà una spiegazione di
quello che è successo, il mio amico non delude mai. In effetti,
Libero aggiunse a quell’edonista un ragionamento complesso, e poco
compreso da Vittorio, sull’uso del termine edonista, caduto in
disuso negli anni novanta e usatissimo negli anni ottanta quando era
molto spesso accompagnato dal neologismo reaganiano. Libero continuò
con una dotta disquisizione sul Presidente Reagan, all’origine del
neologismo, un mediocre attore diventato un ottimo Presidente degli
Stati Uniti. Spiegò che con edonismo reaganiano la stampa comunista
cercava di marchiare negativamente, con l’infamia della ricerca del
piacere, l’innovativo Presidente americano al quale opponeva
l’ascetismo e la frugalità di Berlinguer, il capo del PCI.
Un’ulteriore digressione sulla sua gioventù sprecata nei falsi
idoli del marxismo e dell’ateismo e infine la pazienza di Vittorio
fu premiata perché Libero finì la sua lezione con un “torniamo a
noi due, edonista: sì Vittorio, tu hai sprecato la tua gioventù
nella ricerca del piacere e alla prima seria difficoltà ti sei
arenato. Tu pensavi che la vita fosse solo divertimento e non eri
preparato ad affrontare le avversità. E invece di espiare la colpa
cosa ti inventi? Il suicidio. Per fortuna il tentato suicidio. Di
tipo dimostrativo per di più. Sì, tu con il tuo atto estremo volevi
dimostrare a tutti quanto fosse enorme il tuo dolore per la fine
della povera Laura e nello stesso tempo mostrare che eri capace di
punirti, per quello che avevi commesso, con la morte nel lago. Eh no,
mio caro, il suicidio è un fuggire dalle proprie responsabilità, tu
avresti dato le dimissioni dalla vita mentre dovrai usare il tempo
che ti resta da vivere, spero lunghi anni, per riparare all’errore
compiuto. Solo così potrai espiare veramente le tue colpe”. Libero
smise di parlare e guardò intensamente Vittorio, invitandolo con lo
sguardo ad una risposta. “Sì, hai ragione” disse il giovane, “su
tutta la linea, sia sul mio edonismo che sul tentato suicidio e penso
di capire cosa intendi come espiazione. Non ti prometto nulla ma
cercherò di cambiare, di uscire da questa vita d’inferno”.
Libero annuì muovendo lentamente il viso. Poi disse “non solo
avevo il problema di Don Giussani, ora mi hai messo in testa un altro
dubbio: perché la Chiesa parla sempre di perdono e quasi mai di
espiazione? Quasi quasi lo chiedo al primo Ciellino che incontrerò,
mettiamoli alla prova, controlliamo il loro fervore. Intanto beviamo
un buon bicchiere di rosso in onore del pescatore, non stupirti
Vittorio. Si dice che le vie dell’inferno sono lastricate di buone
intenzioni, invece nel nostro caso è accaduto l’opposto perché il
suo comportamento spregevole ti ha salvato la vita. Sono convinto che
se avesse tentato di salvarti ti saresti buttato nel lago. “
03/02/2006
Nessun commento:
Posta un commento