martedì 14 agosto 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 11


La disperazione era la condizione predominante in Vittorio. Lo era da quel novembre del 1998 quando aveva provocato la morte di una ragazza, Laura. Indubbiamente una morte non voluta, una sfortunata coincidenza di tempo, imperizia e sfortuna ma tutto questo non serviva a mitigare il profondo sconforto di Vittorio. Un misto di avvilimento e depressione lo avvolgeva, l’avvilimento per essere stato il principale protagonista della morte di Laura, la depressione per avere spezzato una giovane vita. Non servivano a consolarlo le attenzioni degli amici tutti tesi a spiegargli le attenuanti, dall’imprudenza della ragazza nell’attraversare la strada alla giornata uggiosa con visibilità ridotta, perché Vittorio si sentiva colpevole di quanto accaduto. A chi lo consolava rispondeva, con uno sguardo fisso non sugli interlocutori ma su un punto indefinito, con frasi come “la colpa è solo mia, non dovevo passare con il giallo, dovevo attendere che l’autobus ripartisse”. E fra gli amici non c’era più Monica, la ragazza che lo aveva lasciato proprio la sera prima dell’incidente. Non si fece viva neanche con una semplice telefonata. Non aiutavano le incombenze burocratiche ed investigative, dalla comunicazione dell’incidente all’assicurazione alle convocazioni presso la Caserma dei Carabinieri. Soprattutto lo danneggiava il continuo ricordo degli attimi successivi allo scontro mortale: quando fu chiaro che Laura era priva di vita un cupo silenzio scese sulla strada e Vittorio pensava di essere al centro di un set cinematografico circondato dagli altri attori, le forze dell’ordine, gli addetti del carro attrezzi che dovevano ritirare la sua macchina posta sotto sequestro giudiziario, il carro funebre. In un cerchio concentrico più esterno c’erano gli spettatori del lugubre dramma i quali pur essendo silenziosi riuscivano, con il semplice sguardo o con la mimica facciale, a fargli capire che era lui il protagonista assoluto della tragedia: il colpevole. Dormiva poco e male, con risvegli nel pieno della notte, madido di sudore e con il respiro ansimante. Un passare continuo da assopimenti a lunghi periodi con gli occhi sbarrati nel buio e nella mente il corpo di Laura afflosciato sull’asfalto. Vittorio trascorse così i dieci mesi intercorsi fra l’incidente ed il processo. La condanna era ampiamente prevista e, infatti, il tribunale lo giudicò colpevole di omicidio colposo. Per omicidio colposo si intende un delitto commesso non volontariamente ma a causa di una negligenza od imperizia. Le indagini avevano accertato che la macchina di Vittorio andava ad una velocità fra i 58 ed i 63 orari, oltre il limite imposto in quella via, con l’aggravante della presenza della fermata dell’autobus e delle strisce pedonali, condizioni che dovevano comunque consigliare di ridurre la velocità. La pena sancita fu di dodici mesi con il beneficio della condizionale e la sospensione della patente per tre mesi. Non fu la sanzione ad aumentare la disperazione di Vittorio, era ampiamente prevista e sarebbe stata accolta come una giusta condanna. Fu invece l’incontro con i genitori di Laura ad accrescere lo smarrimento del giovane. Vittorio aveva cercato di prendere contatto con i genitori subito dopo l’incidente ma alcuni conoscenti glielo sconsigliarono: troppo prematuro un incontro, meglio aspettare. Scrisse allora una lettera nella quale con parole semplici ma intense cercò di esprimere tutto il suo dolore e il profondo dispiacere per l’incommensurabile danno provocato. Non ricevette nessuna risposta. Ora li aveva di fronte nell’aula del tribunale; nessun contatto durante il processo, neanche uno sguardo. Alla fine del processo si avvicinò ai genitori ma le sue buone intenzioni furono bloccate dal padre di Laura che disse “vai via, bastardo” e dallo sguardo della madre, uno sguardo nel quale si registravano perentoriamente i sentimenti del disprezzo e dell’orrore. Il suo avvocato lo trascinò via mormorandogli “andiamo, non è il momento e, forse, non lo sarà mai”. L’atteggiamento dei genitori di Laura fu l’ultimo colpo sul precario equilibrio di Vittorio. Passò il resto della giornata fissando il muro della casa, in un silenzio assoluto, senza mangiare e bevendo brevi sorsi da una bottiglia di grappa. Poi, nel cuore della notte, uscì dall’abitazione di Uggiate e si diresse, a piedi, verso Como. La notte settembrina era tiepida, con uno spicchio di luna crescente sufficiente per rischiarare la strada nei tratti senza illuminazione. Quando sentiva avvicinarsi qualche automobile Vittorio si scansava dalla carreggiata per paura che qualcuno lo riconoscesse. Infine, quando ormai albeggiava, giunse a Monte Olimpino e scese verso Como, superò Villa Olmo e si diresse verso Cernobbio. Prima di giungere nel centro rivierasco, in un punto dove la strada costeggiava direttamente il lago, superò il parapetto e scese sulla leggera striscia di riva lambita dalle acque limacciose del lago. Era deciso, basta con le sofferenze, meglio farla finita, che le acque lavino le mie pene, il lago serve anche a questo. Con questi tristi pensieri in testa Vittorio si accorse che non era solo sulla riva perché, a circa dieci metri di distanza verso Como, c’era un pescatore. Il rumore provocato dal salto della ringhiera distolse il pescatore dal suo passatempo. I due si guardarono. Il pescatore capì in un attimo le intenzioni di Vittorio. Piccole onde si infrangevano sulla riva mentre i due uomini si scrutavano in silenzio. Poi, fu il pescatore a distogliere lo sguardo da Vittorio e, mentre tornava a fissare il lago, disse “fai quello che devi fare ma fallo più in là, lontano da me, perché mi rovini il divertimento”. A sentir profferire quelle parole Vittorio ebbe l’impulso di sparire immediatamente: e, infatti, risalì sulla strada e fece ritorno ad Uggiate. Tornato a casa si buttò a letto e, per la prima volta dopo quel tragico giorno, riuscì a dormire senza incubi, riassaporò il piacere di un sonno gradevole. Si svegliò di pomeriggio inoltrato e subito ebbe l’impulso di spiegare a qualcuno quanto gli era successo. Scartò tutti gli amici, i parenti, l’avvocato. L’unico che poteva ascoltarlo e, magari, dargli qualche consiglio era Libero. Sì, proprio l’ex ateo che incontrò la fede leggendo uno scritto di Dostoevskij e che ora era alla ricerca di un suo ruolo nella Chiesa. Non c’era nulla che potesse unire i due uomini, divisi da interessi, prospettive e da un buon numero di anni. Però a Vittorio piaceva il modo di comportarsi di Libero il quale nascondeva sotto un atteggiamento burbero ed iroso un gran cuore. Soprattutto fu colpito dal comportamento di Libero quando si incontrarono la prima volta dopo l’incidente: Libero non disse una sola parola ma gli diede una pacca sulla spalla e poi lo guardò fisso negli occhi tenendogli contemporaneamente le mani sulle spalle. Un linguaggio del corpo ed un atteggiamento virile, con lo scopo evidente di trasmettergli coraggio, molto apprezzati da Vittorio.
Dopo aver sentito il racconto di Vittorio, Libero sbottò con un “ma cosa mi dici, ma lasciami stare, con tutti i problemi che ho, ora devo risolvere la faccenda di don Giussani”. Vittorio non si scompose neanche un po’, sapeva che Libero rispondeva sempre citando le preoccupazioni del momento. Infatti Libero, nel suo domandarsi se un credente, per essere completo, doveva appartenere o no ad una Chiesa, si era dedicato allo studio della storia della Chiesa Cattolica. Studio che aveva ormai completato ed ora, nella sua inesausta ricerca, si era messo a studiare i movimenti religiosi. Aveva risalito il corso dei secoli e in questo periodo stava analizzando i movimenti sorti nel Novecento. La struttura mentale di Libero era tale che non poteva essere colpito da quello denominato Comunione e Liberazione: l’ex marxista che in ogni azione vedeva l’aspetto politico fu affascinato dagli appartenenti al movimento, i Ciellini, i quali, pur rimanendo fedeli all’insegnamento di Cristo e della sua Chiesa, non avevano nessun timore a buttarsi in politica, a schierarsi. Soprattutto fu attratto dall’impegno profuso dai quei pochi Ciellini che conosceva nel difendere le proprie convinzioni e la propria fede. Se questi sono così convinti delle loro azioni, si disse, devo assolutamente studiare gli scritti del loro fondatore, Don Luigi Giussani. L’incontro con Vittorio avvenne proprio mentre aveva letto una ventina di pagine di un libro di Giussani. Venti pagine e Libero non aveva capito nulla. Infatti, disse a Vittorio, il quale non sapeva chi fosse Don Giussani, “perché non comprendo quello che scrive? Io che ho letto, assimilato e propagandato tutto Il Capitale di Marx, quel mattone di un libro, quanti anni buttati via inutilmente e adesso, perché non capisco quello che vuol dire questo prete brianzolo?” Libero andò avanti a borbottare per altri cinque minuti poi, come se si fosse accorto solo in quel momento del suo interlocutore, fissò Vittorio e lo apostrofò con un “la colpa è tua perché sei un edonista”. Bene, pensò Vittorio, ora parla del mio caso, dovrò pazientare ancora un po’, sopportare le sue divagazioni, infine mi darà una spiegazione di quello che è successo, il mio amico non delude mai. In effetti, Libero aggiunse a quell’edonista un ragionamento complesso, e poco compreso da Vittorio, sull’uso del termine edonista, caduto in disuso negli anni novanta e usatissimo negli anni ottanta quando era molto spesso accompagnato dal neologismo reaganiano. Libero continuò con una dotta disquisizione sul Presidente Reagan, all’origine del neologismo, un mediocre attore diventato un ottimo Presidente degli Stati Uniti. Spiegò che con edonismo reaganiano la stampa comunista cercava di marchiare negativamente, con l’infamia della ricerca del piacere, l’innovativo Presidente americano al quale opponeva l’ascetismo e la frugalità di Berlinguer, il capo del PCI. Un’ulteriore digressione sulla sua gioventù sprecata nei falsi idoli del marxismo e dell’ateismo e infine la pazienza di Vittorio fu premiata perché Libero finì la sua lezione con un “torniamo a noi due, edonista: sì Vittorio, tu hai sprecato la tua gioventù nella ricerca del piacere e alla prima seria difficoltà ti sei arenato. Tu pensavi che la vita fosse solo divertimento e non eri preparato ad affrontare le avversità. E invece di espiare la colpa cosa ti inventi? Il suicidio. Per fortuna il tentato suicidio. Di tipo dimostrativo per di più. Sì, tu con il tuo atto estremo volevi dimostrare a tutti quanto fosse enorme il tuo dolore per la fine della povera Laura e nello stesso tempo mostrare che eri capace di punirti, per quello che avevi commesso, con la morte nel lago. Eh no, mio caro, il suicidio è un fuggire dalle proprie responsabilità, tu avresti dato le dimissioni dalla vita mentre dovrai usare il tempo che ti resta da vivere, spero lunghi anni, per riparare all’errore compiuto. Solo così potrai espiare veramente le tue colpe”. Libero smise di parlare e guardò intensamente Vittorio, invitandolo con lo sguardo ad una risposta. “Sì, hai ragione” disse il giovane, “su tutta la linea, sia sul mio edonismo che sul tentato suicidio e penso di capire cosa intendi come espiazione. Non ti prometto nulla ma cercherò di cambiare, di uscire da questa vita d’inferno”. Libero annuì muovendo lentamente il viso. Poi disse “non solo avevo il problema di Don Giussani, ora mi hai messo in testa un altro dubbio: perché la Chiesa parla sempre di perdono e quasi mai di espiazione? Quasi quasi lo chiedo al primo Ciellino che incontrerò, mettiamoli alla prova, controlliamo il loro fervore. Intanto beviamo un buon bicchiere di rosso in onore del pescatore, non stupirti Vittorio. Si dice che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, invece nel nostro caso è accaduto l’opposto perché il suo comportamento spregevole ti ha salvato la vita. Sono convinto che se avesse tentato di salvarti ti saresti buttato nel lago. “

03/02/2006

Nessun commento:

Posta un commento