domenica 29 luglio 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 9
Dopo la fondamentale poesia “La rima del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge il mondo è stato diviso, inesorabilmente ed inevitabilmente, in due categorie: quella dei “vecchi marinai” e quella degli “invitati a nozze”. Narra il poeta inglese la storia di un vecchio marinaio e della sua nave che, in un anno sul finire del Settecento, durante una perigliosa navigazione nei mari antartici, fu spinta da una tempesta nelle acque fredde vicino al Polo finché comparve un grosso uccello marino, l’albatro, il quale seguì per giorni e giorni la nave fino a quando un buon vento da Sud portò il veliero in mari più tranquilli. E di come il vecchio marinaio, contro ogni regola di ospitalità, uccise con una freccia il povero e incolpevole uccello, morte ingiusta che fece da preludio, anzi fu la causa scatenante del decesso di tutti i membri dell’equipaggio. Con un’unica eccezione: proprio  il vecchio marinaio riuscì a tornare in Inghilterra dove si confessò da un Eremita che lo assolse dal peccato di aver ucciso inutilmente l’innocente albatro ma con la penitenza di dover narrare, per tutta la vita,  la sua tragica avventura alle persone indicategli dal suo intuito. Infatti, la poesia inizia con il vecchio marinaio che sceglie uno di tre invitati ad un matrimonio  incrociati mentre si recano alla cerimonia, uno solo e solo quello, e il prescelto non riesce a staccarsi dall’occhio acceso dell’uomo di mare tanto che si può parlare di un vecchio marinaio costretto a raccontare ma anche di un invitato obbligato ad ascoltare. Adesso, cari lettori, concentratevi sulle vostre conoscenze: senza ombra di dubbio vi verrà in mente qualcuno che, senza esitazione, vi ha raccontato tutto della sua vita e delle sue opere: è un Vecchio Marinaio. Conoscerete anche qualcheduno che, senza essere villano o sgarbato, preferisce non parlare di se stesso anzi predilige l’ascoltare al narrare: è un Invitato a Nozze. Per esempio io sono un Invitato: non parlo della mia vita ed ho notato che spesso incontro persone le quali, spontaneamente, mi riferiscono molto, se non tutto, della propria esistenza. Il Ferverio, Augusto Ferverio per la precisione, è uno di questi: l’ho incontrato per motivi di lavoro e nel tempo di una mezzora abbondante mi ha raccontato gran parte della sua vita. Da notare che io non lo conoscevo, mai visto prima, nessuna cosa al mondo poteva spingerlo a riferirmi gli affari suoi se non  l’istinto del Vecchio Marinaio a parlare, parlare. La logorrea che ha bisogno di uscire dal corpo. Mentre guidava una Mercedes nera e scintillante, il Ferverio mi informò del suo primo lavoro a tredici anni come garzone di un prestinaio, lavoro durato due anni e abbandonato per una stamperia, con turni diurni e notturni, attività pesante ma appassionante. Nella stamperia fece una rapida carriera tanto da salire tutti in gradini gerarchici e arrivare, infine, alla carica di responsabile dello stabilimento. Ora, dopo quaranta anni di lavoro, era in pensione ma non si era fermato a riposare perché curava un piccolo zoo formato da due vitelli, un asino,  un pony e due caprette tibetane. Aveva preso anche un trattore nonché tutta l’attrezzatura per curare i campi intorno alla sua casa e produrre gli alimenti per gli animali tornando così, non  tanto inconsciamente, alla vita contadina della sua infanzia. Mentre lui parlava e parlava, io, l’Invitato a nozze, non potevo fare altro che ascoltare, assentire ogni tanto con i movimenti della testa, mormorare qualche “ah” o qualche “davvero” e “però”: non c’è scambio di vedute fra un Vecchio Marinaio ed un Invitato, la regia è rigida ed immodificabile, uno si esprime e l’altro assiste. Nel frattempo, Augusto era passato a comunicarmi il suo stato di famiglia, la moglie conosciuta in stamperia, un amore aziendale si potrebbe dire, sposata di fretta e furia perché il Ferverio non era veloce solo con le parole, dopo cinque mesi era nata la prima figlia e dopo tre anni ancora una bimba, “sì, avrei preferito un maschio ma va bene così lo stesso, il futuro è delle donne” e io assentivo, non perché convinto della bontà della sua tesi ma semplicemente perché terrorizzato che mi spiegasse i motivi di tale affermazione. Le bimbe nel frattempo erano cresciute, “brave figliole, grandi lavoratrici e con la testa sulle spalle” e la maggiore si era anche sposata ed ora aspettava il primo bambino, all’Augusto luccicavano gli occhi mentre me lo dichiarava, pregustando già l’attività del nonno a tempo pieno. La figlia minore invece viveva ancora in casa, niente ragazzo, sì ne aveva avuto uno ma era un balordo, il Ferverio ringraziava tutti i Santi del calendario perché la storia si era interrotta e poi “adesso non è come una volta che una donna non sposata era una zitella e basta, adesso le donne si possono realizzare anche al di fuori del matrimonio”. Il Vecchio Marinaio divulgava la sua vita ed io, il misero Invitato costretto a sopportare il profluvio di parole come i sassi dei torrenti di montagna subiscono l’impeto dell’acqua, pensavo se il buon Coleridge si fosse reso conto, nello scrivere la sua bella poesia lassù, fra le brume inglesi, di essere riuscito pienamente a conseguire il vero risultato a cui aspirano tutti quelli che scrivono: creare personaggi immortali.
Intanto Augusto aveva finito l’argomento della famiglia e, sempre con il tono di quello che racconta fatti fondamentali, era passato a trattare della sua Mercedes, nera e con il cambio automatico: probabilmente aveva notato che guardavo con interesse la scatola del cambio e comprese all’istante che non capivo nulla di quel che vedevo perché partì con una descrizione particolareggiata sia della meccanica che dell’utilità di avere una macchina con il cambio automatizzato. Passare ad una completa descrizione dei pregi della Mercedes fu una conseguenza logica e prevista: comodità, silenziosità e signorilità furono gli aggettivi usati da Augusto e immancabilmente arrivò il consiglio di acquistare, in futuro, una Mercedes. Cosciente del mio essere un Invitato a nozze non ribattei, come faccio sempre quando mi magnificano qualche auto straniera, dicendo che acquisito esclusivamente auto italiane, vale a dire Fiat o marchi collegati, inutile spiegargli che io su una macchina straniera non mi sento comodo, mi sembra di non essere nella mia casa tale è la familiarità che mi propaga il rumore di un motore Fiat. Frattanto il Ferverio mi stava informando dei pregi del motore diesel, di quanto fosse economico, lui per esempio era andato e tornato, l’ultima estate, da Castiglione della Pescaia con lo stesso pieno. Mi informò che il viaggio di andata e ritorno, da un luogo di vacanza nello stesso giorno, furono provocati dall’improvvisa morte del suocero della figlia. Appena arrivati in albergo arrivò la telefonata del decesso e la rombante  Mercedes riportò a casa Augusto e moglie. Come senz’altro avrete già intuito Ferverio mi spiegò nei minimi particolari il malanno del consuocero, un infarto fulminante, abbattutosi all’improvviso su un uomo ancora giovane, un quasi sessantenne sportivo “sì, fumava, ma solo dopo aver mangiato, non era una ciminiera”. Inarrestabile Ferverio, il suo viaggio nei mari del Sud non sembrava avere una fine. E pensare che incominciò la nostra conversazione con una domanda, un innocuo “ma lei di dov’è?”. Sentendo il nome di Ronago commentò con un “ah, il paese dei contrabbandieri”, spiegazione che non mi stupì affatto tante sono le volte che l’ho sentita. Non mi sconcertò neanche la rilevazione di Augusto che in gioventù aveva fatto lo spallone, passando attraverso il confine anche nel territorio di Ronago, a dimostrazione che si può essere contrabbandiere senza abitare vicino al confine. Però la nomea di contrabbandiere colpisce noi di Ronago. Nulla di grave comunque, c’è di peggio, ad un abitante di Corleone può capitare di sentirsi dire “ah, il paese della mafia” e, sempre rimanendo in ambito locale, noi ronaghesi possiamo incorrere in disavventure più antipatiche. Come quella volta a Lomazzo, in anni ormai lontani,  dove difendevo i colori del Bar Graziella di Ronago in un torneo serale di calcio. Giocavamo contro una squadra locale e i lomazzesi non si limitavano ad incitare i loro beniamini ma denigravano con gusto la mia squadra. Nulla di anormale, il tifo calcistico è notoriamente becero. Però, mi chiedo ancora dopo tutti questi anni, dovevano proprio urlare verso di noi “Hopp Suisse, Hopp Suisse”, per tutta la partita? Datemi pure del contrabbandiere, ma non dileggiatemi perché abito sul confine, o abitanti della bassa comasca, pensavo, mentre gli “Hopp Suisse”, un incitamento molto in uso nella vicina Confederazione simile al nostro “Forza Azzurri”,  anziché deprimermi stimolavano il mio impegno. Naturalmente Augusto non si accorse che non lo seguivo nelle sue argomentazioni perché a tutti i Vecchi Marinai non interessano affatto quanto siano ascoltati i loro discorsi: sono talmente concentrati nella loro verbosità che tutto quanto esula dai loro ragionamenti è bellamente ignorato. Questa è la vera, unica difesa che l’Invitato a nozze può dispiegare contro il Vecchio Marinaio: quando l’uccisione dell’albatro è ancora lontana, e dell’Eremita non si vede traccia, la reale ancora di salvezza è pensare ad altro. Come feci io in quell’occasione, meglio ricordarmi quella partita a Lomazzo, la casacca bianca con Bar Graziella Ronago scritto in rosso, il colletto incredibilmente stretto e rigido in quella calda ed umida serata di giugno, tanto premuto sul collo che me la presi con Vincenzo, il figlio della Graziella: come mai non avevano pensato ad una maglietta con il collo aperto, maledizione, ci volevano far morire dal caldo? E la partita, vinta con uno striminzito uno a zero, un golletto fortunoso provocato da un rimpallo con una traiettoria maligna che ingannò l’incolpevole portiere avversario. Un vantaggio strenuamente difeso con un catenaccio gigantesco. Sì, quella volta la fortuna ci aiutò in modo decisivo. Sicuramente Eupalla, la Dea del calcio, ci fece vincere perché non sopportò il dileggio ingiustificato.
17/03/05

mercoledì 25 luglio 2012


PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO – 8 –  

Poca gente al bar in quella fredda sera di un sabato di fine gennaio degli anni novanta, due giocatori al biliardo, Libero che leggeva il giornale nel suo modo meticoloso, nel senso che divorava il quotidiano dalla prima all’ultima pagina, quattro pensionati che giocavano a scopa nel tavolo appartato giù in fondo. Una calma assoluta, intervallata dal rumore provocato dalle bocce che s’incontravano, si scontravano e si separavano disegnando linee geometriche sul tavolo verde. Calma interrotta dall’ingresso fragoroso del Genesio e del Moscerino, il primo che gridava  insulti triviali e il secondo che incassava, con uno sguardo a metà fra la rabbia e la giustificazione.
I due tornavano da una rapina. Il Genesio indicò il tavolo vicino a quello di Libero mentre l’altro faceva segno di no con gli occhi perché non gli garbava sedersi nel posto attiguo a quel fanatico religioso pieno di discorsi su Dio e sull’Aldilà.  Invece Genesio voleva accomodarsi lì proprio per quello, poteva sempre servire un alibi, un qualcuno che confermasse la nostra presenza qui, al bar, dalle diciotto e quarantacinque e non dalle diciannove come nella realtà e Libero era proprio indicato per questo, perché essendo estremamente energico nelle difese delle proprie convinzioni, bastava fargli credere che loro fossero entrati un quarto d’ora  prima e lui lo avrebbe testimoniato davanti a qualsiasi tribunale. Genesio non si era ancora seduto che già aveva gridato “Libero non mangiare tutto il giornale, lasciane un po’ anche a noi” e si prese subito come risposta “a voi? Ma se siete degli analfabeti di ritorno, al massimo potete leggere la “Gazzetta dello sport” e solo i titoli. Ma guardatevi, incolti, guardatevi allo specchio che bello spettacolo siete, non capite che la vera differenza fra le persone non la fa il titolo di studio o il tipo di lavoro, la differenza è fra chi legge e gli illetterati  perché chi legge sa, mentre voi vivete nell’ignoranza”. In queste poche parole si poteva già capire il carattere di Libero, un tipo sarcastico che s’infiammava subito, la polemica era il suo pane quotidiano, la lettura il suo passatempo preferito. Le letture avevano scandito la sua vita e, naturalmente, anche il modo di pensare tanto che si poteva parlare di un periodo giovanile contraddistinto da libri e pratiche marxiste e un periodo maturo religioso, se non addirittura mistico, nel quale non lasciava passare giorno senza leggere qualche pagina della Bibbia. D’altra parte non aveva tutti i torti nel definire così i due individui perché Genesio era l’uomo dai mille lavori aventi come comune denominatore l’illegalità e Moscerino era un energumeno tutto grasso e muscoli, con un cervello inversamente proporzionale alla massa corporea, l’unico organo così piccolo da giustificare il soprannome. Non è che i due si frequentassero molto, troppo diversi di carattere per andare d’accordo, ma la necessità li unì quell’inverno perché il Moscerino, giocatore incallito di tutte le riffe e lotterie, aveva urgentemente bisogno di grana fresca per pagare i debiti di gioco. Avendo esaurito ogni possibilità legale di guadagno, si era deciso a chiedere un aiuto al Genesio, ex contrabbandiere dalle mille risorse. Certo, ci volle tempo a convincerlo, a scalfire il muro di diffidenza alzato da Genesio che era un tipo guardingo come tutti i laghèe: il Moscerino non era del giro, non brillava per intelligenza, perché ”lavorare” con lui? Tutti i dubbi sparirono quando il Moscerino spiegò, nel suo italiano incerto e dialettale il suo piano: svuotare la cassaforte di Domenico Collima detto Caino, l’usuraio. Era questi un pensionato costretto a letto da un ictus che gli aveva  tolto l’uso della parte destra del corpo e della parola. Il Moscerino, nella sua quotidiana ricerca di soldi da sperperare, aveva frequentemente contatti con Caino, nel senso che questi prestava soldi con tassi d’interesse da strozzino o con il contraccambio di  lavori malpagati come nel caso dell’ultimo affare di Caino, la vendita di un quadro ad un acquirente del Sud, nel quale il Moscerino aveva fatto da guardaspalle. In questo modo il giocatore d’azzardo ebbe la possibilità di frequentare la casa di Domenico e di intravedere, senza essere visto, una cassaforte dietro un quadro nel soggiorno, un giorno che Giannina, moglie di Caino, gli disse di entrare pure, senza circospezione, poiché il marito lo aspettava nel soggiorno. L’usuraio, con le spalle volte all’ingresso del locale perché in procinto di chiudere la cassaforte, non si avvide della scoperta fatta dal Moscerino, il quale fu abile  a non farsi scoprire aspettando quell’attimo  ad entrare nel soggiorno. Il tipo di cassaforte, un forziere ad incastro con apertura permessa da una combinazione con tre giri a sinistra, due a destra ed uno ancora a sinistra, fu l’elemento che convinse Genesio a partecipare alla rapina; si trattava di un aggeggio relativamente facile da aprire, anche per lui che  si considerava un modesto scassinatore, non un artista del ramo.
Intanto, mentre noi divaghiamo, il Genesio stava rispondendo a Libero “uh come  sei polemico stasera, ti ho solo chiesto di lasciarmi leggere il giornale e tu mi ribatti insultando. Va bene, hai ragione, siamo degli ignoranti, ma è proprio il caso di sbattercelo sul muso così, senza neanche un po’ di tatto?” Libero, come senz’altro avrete già compreso, era un fiammifero pronto ad incendiare la foresta se attaccato ma nel giro di pochi istanti poteva diventare un mansueto dispensatore di saggezze se l’interlocutore lo smontava con un atteggiamento gentile o comprensivo. Non stupitevi quindi se rispose “no ragazzi, non volevo offendervi e se l’ho fatto mi scuso con tutto il cuore. Io volevo solamente spiegarvi l’importanza della lettura perché solo la conoscenza ci può aiutare a rispondere alle fondamentali domande che, prima o poi, ognuno si pone: chi siamo? Perché esistiamo? Dove andiamo?”  Libero non lo disse ma la domanda a cui non sapeva rispondere in quel momento era “con chi andare?”, perché ormai lui conosceva benissimo la sua strada, il Cristianesimo, ma quel cammino lo doveva percorrere da solo od in compagnia? Era un quesito che gli rimbombava in testa dall’estate precedente quando, finalmente, era riuscito ad esaudire un suo desiderio che risaliva ai tempi della conversione, il pellegrinaggio verso Santiago di Compostela percorso a piedi e sugli stessi sentieri dei pellegrini del Medio Evo. Viaggio che aveva pomposamente chiamato La Ricerca e che per un tratto non breve fece con  un gruppo di spagnoli dell’Aragona, guidato dal loro parroco. In quei giorni, vedendo il pastore seguito devotamente dal  suo gregge, gli frullò in testa l’idea che la sua concezione  del Cristianesimo fosse un’elaborazione che non permetteva la condivisione con altri della propria fede e, quindi, fosse un atto di arroganza, di egoismo. Ed ancora adesso, a distanza di mesi si chiedeva “ma io ho bisogno di una Chiesa per esprimere compiutamente la mia Fede, oppure posso essere un credente solitario?”.
Naturalmente Genesio e il Moscerino non avevano nessuna voglia di rispondere alle domande di Libero, le loro menti erano ancora concentrate sull’azione criminosa appena terminata e la cui elaborazione non aveva, in verità, spremuto le loro meningi. Troppo metodica la Giannina, con una vita talmente regolare da sembrare scandita da un metronomo, troppo favorevole per i loro piani la menomazione di Caino. Decisero di eseguire il colpo il sabato sera alle diciotto perché Giannina era un’assidua frequentatrice della Messa Prefestiva e poi, dopo la funzione, si concedeva sempre un tè con le amiche presso il bar situato di fronte alla Chiesa. Scelta quasi dovuta perché era l’unico momento in cui la donna lasciava il marito solo, per esempio quando faceva la spesa c’era sempre una comare disposta a sostituirla nella sorveglianza dell’infermo. Tre quarti d’ora di funzione e mezz’ora di bar, Genesio era sicuro di avere tutto il tempo di aprire la cassaforte. Fu così che alle sei in punto di quel sabato i due loschi figuri scassinarono facilmente la porta d’ingresso dell’abitazione di Caino e velocemente s’intrufolarono nell’appartamento. I compiti erano ben definiti: Genesio si concentrava sulla cassaforte, Moscerino controllava che tutto intorno fosse tranquillo. La prima mezz’ora passò in un battibaleno e Genesio non riuscì a realizzare progressi nella sua lotta con il forziere. Alle diciotto e cinquanta minuti, quando ormai la speranza di aprirla stava svanendo, Genesio avvicinò l’orecchio alla cassaforte per ascoltare meglio i movimenti degli ingranaggi e questo gesto gli permise involontariamente di vedere, sul retro del quadro che serviva per coprire la cassaforte e che aveva appoggiato al pavimento, una scritta. Guardò meglio e si accorse con giubilo che si trattava di un numero di sei cifre: 865622. Ho fatto Bingo pensò e subito manovrò la ruota numerata: tre giri a sinistra fino all’86, due a destra fino al 56 e uno ancora a sinistra fino al 22. La cassaforte non si aprì. Riprovò, questa volta invertendo i numeri, 22 a sinistra, 56 a destra e 86 a sinistra. Un clic metallico che a Genesio parve melodioso annunciò l’apertura del  mobile. Stava riflettendo “questi deficienti meritano proprio di essere derubati” quando si trovò una Giannina aggrappata alla sua schiena e urlante “al ladro, al ladro”. Era successo un imprevisto. Imprevedibile, se no che imprevisto sarebbe? L’inimmaginabile aveva un nome, Giuditta, una pia donna con una corporatura possente ed un’andatura da plantigrado. Una caritatevole signora sulla sessantina con uno spiccato senso dell’amor del prossimo che la teneva impegnata per gran parte della giornata. Si avvicinò alla Giannina quando la Messa era terminata e prendendola a braccetto le disse <oh Giannina cosa ho sentito stamattina dal macellaio, si parlava del più e del meno e io ho detto quanto tu sia brava a curare quel povero malato di tuo  marito, di quanto tu sia premurosa, ed è intervenuta la Santina con un  “sì, proprio premurosa: lo lascia sempre solo nel suo letto di dolore ed è sempre in giro a chiacchierare”. Io ho ribattuto che non era assolutamente vero, anzi, ti comporti come una vera   infermiera oltre che una moglie zelante nella cattiva sorte e lei ha replicato che facevi finta di fare l’infermiera mentre un malato come il Domenico aveva proprio bisogno di una professionista ma tu sei troppo taccagna per pagarne una. Io comunque ti ho difesa, anche quando è intervenuta la Ida a darle manforte, a gridare che la Santina aveva ragione da vendere  e che il tuo comportamento era ancora più riprovevole visto la tua frequenza assidua in Chiesa>. Si attendeva la Giuditta che la Giannina rispondesse a tono ed aveva calcato la mano su quanto effettivamente detto dalla Ida: lei sapeva  che fra le due donne c’era una fortissima inimicizia e, se la Giannina avrebbe potuto tralasciare quanto detto dalla Santina, una nota malalingua invidiosa del mondo intero, probabilmente sarebbe uscita con qualche cosa di malevolo sul conto della Ida. In questo modo, sperava di continuare il suo giro virtuoso e caritatevole perché lei era mossa semplicemente dall’amore per il prossimo e suo preciso dovere quello di appianare le incomprensioni fra le persone di sua conoscenza.  Invece fu veramente sorpresa dalla reazione della Giannina: contrariamente alle aspettative, non rispose per le rime e farfugliò un saluto, lasciò la compagnia e ritornò velocemente a casa. Non voleva stare a sentire quell’arpia, le sue carognate falsamente a fin di bene e poi voleva gridare a suo marito “vero che ti curo bene, vero che faccio tutto per te?”. Non poté esaudire il proposito perché, appena entrata in casa, si accorse che un problema più grave dei pettegolezzi di Giuditta le era caduto addosso, e con coraggio cercò di risolverlo attaccando alle spalle il malvivente. Genesio passò nell’arco di un secondo dalla gioia al terrore. Fortunatamente aveva indossato il passamontagna, si raggomitolò per proteggerlo con le mani dagli attacchi furiosi di Giannina che istintivamente cercava di toglierlo poi, di colpo, si alzò e si girò, riuscendo a liberarsi dalla morsa della Giannina  e  a sbatterla lontano da sé quel tanto sufficiente da permettergli di fuggire. Uscì dal salotto  e quasi si scontrò con il Moscerino che stava a sua volta uscendo dalla camera da letto di Caino. Lo sciagurato, invece di agire da palo, si era intrufolato nella stanza di Domenico  per dileggiarlo con frasi del tipo “oltre a non ridarti i soldi che ti dovevo ora ti prendo anche quelli che hai in cassaforte, maledetto strozzino”. E via di corsa verso il bar, lasciando una Giannina distrutta nel soggiorno, più annichilita dalle parole di Giuditta  che dalla colluttazione con il rapinatore; d’altra parte si potrebbe notare che almeno questa volta la Giuditta è riuscita a completare un’opera di bene  perché, involontariamente,  con le sue parole e la conseguente reazione di Giannina, aveva  provocato il fallimento della rapina.
Strana atmosfera quella sera al bar, poca gente e tutta scontenta. Non era contento Libero con i suoi pensieri sulla Fede e sulla Chiesa e che riassumeva nell’ultima domanda: “posso credere senza appartenere?”. Non si sentiva appagato il Moscerino sempre alla ricerca di soldi e di occasioni di facili guadagni per soddisfare la febbre del gioco. Soprattutto non era soddisfatto il Genesio. Mentre Libero si poneva delle domande a cui nessuno voleva rispondere, lui si chiedeva come avesse fatto a preparare un colpo con quel ritardato di Moscerino, vero anello mancante fra la scimmia e l’uomo, e più di ogni altra cosa un pensiero lo assillava: la supposizione, se non la certezza, che sarà sempre una mezza cartuccia, non farà strada nel mondo della malavita. Un vero rapinatore avrebbe preso la Giannina, l’avrebbe sbattuta contro il muro e avrebbe svuotato la cassaforte, non se la sarebbe data a gambe come lui, malavitoso di mezza tacca.
26/07/2004