sabato 17 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 5 –
Non sopporto il suono del telefono. Soprattutto non mi piace quello della mia camera da letto, quel trillo insistente e prolungato che mi manda subito in agitazione. Quest’odio è motivato perché troppe volte mi ha svegliato durante i turni di reperibilità; tu dormi e, all’improvviso, ti accorgi che sul comodino quell’infernale aggeggio manda da chissà quanto tempo il maledetto squillo ed allora le mani escono dalle coperte e abbrancano l’aria con l’intento di fermare prima possibile la tortura bitonale. Annaspi nel buio, finalmente riesci ad accendere l’abat-jour, localizzi il telefono e prendi la cornetta con mano tremante. Dalla bocca mi esce un “Pronto” strascicato mentre dall’altra parte del filo una voce dice: “Pronto, siamo i Carabinieri, c’è stata una rapina ed abbiamo bisogno di un suo intervento”. Io ribatto “Guardi che si sbaglia, io sono semplicemente un veterinario” ma lo dico sicuramente in un modo incomprensibile perché il milite non capisce e, con gentilezza, mi chiede di ripetere. Allora estraggo i piedi dalle lenzuola e mi siedo sulla sponda del letto, cerco l’orologio che ho fatto cadere quando agitavo le braccia nel buio alla ricerca del lume, lo trovo sul tappeto, guardo le ore: maledizione, indica le due. Nel frattempo ho recuperato un po’ di coordinamento cerebrale e posso così dire con una voce sufficientemente chiara: “Mi scusi, ma cosa c’entro io in questa faccenda?” “Abbiamo proprio bisogno di lei - dice il carabiniere - perché a seguito della rapina un cane è rimasto seriamente ferito. Per favore si rechi al bar ***: si trova sulla Canturina fra Camerlata ed Albate. Lì troverà alcuni miei colleghi che le spiegheranno tutto”. Quando ti svegliano nel cuore della notte istintivamente cerchi di evitare di uscire, è normale che tu voglia rimanere nel letto, al caldo. Però è evidente la gravità dell’accaduto e, ormai rassegnato alla levataccia, dico a mia moglie “quando arrivo, arrivo” che è la frase da me usata quando è impossibile calcolare la durata dell’intervento. Mi dirigo verso il bagno. In queste occasioni il tragitto camera da letto - bagno è il percorso delle recriminazioni e dell’autocompatimento: penso “Ma quanto sono sfortunato, proprio a me doveva capitare un simile garbuglio, proprio in questo giorno dovevano fare la rapina, ingrati, quando io sono di turno”. Apro il rubinetto, immergo le mani nell’acqua corrente e mi sfrego energicamente il viso; finalmente mi sveglio completamente e raggiungo una certa lucidità. Nel frattempo dimentico i pensieri negativi e riacquisto il senso del dovere, dopotutto la reperibilità è detta anche pronta disponibilità ed io devo, con veloce sollecitudine, risolvere i problemi: è un compito d’istituto, perdinci. Il fatto che i guai ti giungano all’improvviso fra capo e collo nel cuore della notte fa parte dello sporco gioco di questo mondo difficile, quindi bando alle ciance ed affronta la questione. Mi vesto velocemente, scendo le scale con passi felpati ed esco. Fuori della porta i miei tre gatti mi guardano con aria sorpresa, rimanendo fermi, non mi seguono scodinzolando fra le gambe come fanno tutte le mattine aspettando la solita scatoletta di carne. Per un istante, le luci della mia auto illuminano i loro occhi luccicanti. Le strade sono naturalmente deserte in questa notte fra il 23 ed il 24 di maggio del 1993; è la notte fra la domenica ed il lunedì, meglio così, non dovrei incontrare gente al ritorno dalle discoteche che guida in modo spericolato. In un attimo attraverso Uggiate, per forza, sono strade che ho divorato chissà quante volte, potrei percorrerle ad occhi chiusi; nondimeno mi sembrano diverse, così vuote e silenziose. Su di me l’auto ha uno strano effetto, stimola fortemente i pensieri: usando un linguaggio rubato al mondo dell’informatica si può dire che l’autovettura alla quale mi collego allacciando la cintura di sicurezza ed impugnando il volante, mi fa da hardware e permette al mio software di elaborare ragionamenti su ragionamenti. Qualche volta l’intensità di quest’attività cerebrale è tale che mi trovo a percorrere itinerari che non avrei dovuto fare, per esempio devo svoltare a destra ma proseguo dritto, perché sono talmente concentrato che mi dimentico lo scopo del viaggio. Il software va in corto circuito e non controlla più l’hardware. Non è il caso delle uscite in reperibilità perché il senso di responsabilità funziona come deterrente impedendomi di sgarrare. E poi, generalmente, di quel logorio mentale nulla rimane perché dimentico quasi tutto quando mi stacco dal volante. Non fu così quella notte perché, forse per l’eccezionalità della chiamata (una rapina!), mi ricordai gli elaborati pensieri passatimi per la testa. Fu quando, scendendo da Montano, dovetti decidere quale strada prendere per arrivare a Camerlata, la Varesina o la Via Pasquale Paoli. Scelgo la Via Paoli e subito rifletto “Che strano, intitolare la principale strada di accesso a Como ad un còrso che lottò strenuamente per liberare la sua isola sperduta nel Mediterraneo dai genovesi e cosa ottenne? I genovesi vendettero la Corsica ai francesi. Cosa c’entra con noi comaschi il Pasquale Paoli? Per di più l’anno della vendita fu il 1768, non a caso l’anno prima della nascita di Napoleone Bonaparte. Interpretando un po’ liberamente la storia si può affermare che una delle conseguenze, oh non voluta certo, delle lotte di Pasquale Paoli fu quella di regalare un Napoleone ai transalpini. E a Como, probabilmente unica città al mondo, la via principale di accesso alla città da Sud si chiama Via Paoli e continua con Via Napoleona e chissà se chi ha assegnato i nomi alle due importanti strade avesse conoscenza di questo legame. A me poi sembra strano dedicare una via a Napoleone: cosa credete che in Francia ci sia una via Giulio Cesare? Ma per favore, solo in Italia si può intitolare una via ad uno che, con la scusa di portarci la libertà l’uguaglianza e la fraternità, ha trattato l’Italia come terra di scambi, dando agli austriaci la Repubblica di Venezia per avere la Lombardia, ma soprattutto come preda, rubandoci molte delle nostre opere d’arte. Capisco che quando ci sono le guerre non si va per il sottile, il bene supremo della propria Patria serve a coprire le ruberie e tutte le mascalzonate, ma ricordare con una via quel giacobino in lotta con tutte le monarchie del continente per diventare a sua volta imperatore mi sembra esagerato se non da autolesionisti”. Intanto, tra uno sragionamento e l’altro, sbuco sulla Canturina e trovo senza fatica il bar, il lampeggiante dell’auto dei Carabinieri mi suggerisce senza possibilità di dubbio dove devo andare. Accosto la mia Uno bianca vicino all’Alfa blu con la scritta sulla fiancata, scendo e mi avvicino al finestrino: all’interno dell’auto intravedo un giovane carabiniere assonnato e con il viso stravolto dalla fatica. Mi presento ed il militare m’indica la porta del bar dicendomi “Vada pure, all’interno c’è il Maresciallo”. Sono davanti all’uscio quando all’improvviso si spalanca la porta e la paura mi attanaglia perché ho l’impressione che il rapinatore stia uscendo dal locale, un individuo con i capelli lunghi e ricci, un giubbetto di pelle dal colore stinto e i jeans usurati. Per fortuna l’uomo parla e posso tirare un sospiro di sollievo perché dice: “Venga dottore, la stiamo aspettando”. E si che di spettacoli polizieschi ne ho visti, dovrei sapere che i tutori dell’ordine devono anche mimetizzarsi per combattere la feccia, anzi questo carabiniere mi ricorda un po’, nel gesticolare e nel vestire, Serpico il poliziotto italo – americano in lotta contro la mafia in un bel film di qualche anno fa. Intanto sono entrato nel bar, vedo il Maresciallo seduto ad un tavolino intento a scrivere su dei fogli; mi dirigo verso di lui e gli stringo la mano. Questi, finiti i convenevoli, mi dice: “Dotto’ ci siamo permessi di disturbarla perché solo un veterinario può dirci se o’animale è muorto”. Di colpo mi rendo conto che, oltre il tavolino e fino quel momento nascosto dal corpo del maresciallo, un pastore tedesco si trova disteso sul pavimento. Nello stesso tempo mi ricordo i romanzi gialli di Ed McBain, quelli della serie dell’87° distretto, dove quando c’era un morto la polizia non lo toccava finché non fosse arrivato il medico legale; il cadavere poteva avere un’ascia nella testa ma i poliziotti non lo sfioravano fino a quando il medico non lo avesse dichiarato ufficialmente defunto. Anche in Italia la procedura deve essere simile, il veterinario ufficiale sono io quindi tocca a me constatare il decesso del cane. Mi chino sull’animale, tocco prima la palpebra e poi la pupilla: nessun riflesso. Per sicurezza inserisco una mano fra le costole e naturalmente non sento alcun battito; il contatto mi indica che il corpo del cane si sta già raffreddando. “Maresciallo – dico – è sicuramente morto”. Il graduato annuisce muovendo lentamente la testa. E’ un uomo di mezza età, con una faccia piena e senza rughe, come spesso capita nelle persone con qualche chilo in più. Ma quello che mi colpisce in quel viso sono gli occhi, di un nero profondo, indagatori, molto attenti a ciò che accade nel locale. Nel contempo mi sembra di cogliere in quegli occhi un velo di tristezza, di malinconia: probabilmente hanno visto troppe cose sgradevoli per guardare gioiosamente il mondo. “Bene dotto’, molto bene” mi dice il Maresciallo con un tono di voce pacato “però ora dovrebbe dirci, a grandi linee, così, su due piedi, la causa probabile del decesso perché, vede, poi noi dovremo riferire al magistrato, sa qui c’è stata una rapina a mano armata e vorremmo anche sapere quanti colpi sono stati esplosi”. “Va bene – replico – però dovrebbe spiegarmi come si sono svolti i fatti”. “Giusto. Allora bisogna chiedere all’unico testimone, il barista” mi risponde e mi indica un uomo appoggiato al bancone. Questi, sentendosi nominato dal Maresciallo, si avvicina a noi due e ripete, penso per l’ennesima volta, il racconto. E’ un ometto con i capelli neri pettinati all’indietro, la barba mal rasata o, vista l’ora, in attesa della lama. Parla con una voce bassa e tremolante, capisco che la paura non gli è ancora passata, ovvio, ha appena visto un rapinatore armato, un ladro che ha anche sparato, e non in aria. Tutto è successo in pochi secondi al momento della chiusura del locale quando il proprietario stava sistemando i tavolini e, a parte il suo cane, non c’era più nessun avventore. All’improvviso si trovò di fronte un uomo che, puntandogli la pistola e strattonandolo con la mano libera, gli intimò di consegnare l’incasso. Il pastore tedesco, vedendo il proprio padrone aggredito da uno sconosciuto, reagì come l’istinto gli comandava: dapprima ringhiò e nell’istante successivo balzò addosso al rapinatore. A questo punto il barista interrompe il racconto e fissa il vuoto. Comprendo che il ricordo di quegli attimi tremendi sono dolorosi per lui e taccio mentre il Maresciallo, con gli occhi, mi fa capire di pazientare e di aspettare che l’uomo si riprenda. Nel frattempo, il carabiniere in borghese che mi ricorda Serpico sposta con metodo i tavolini, controlla dietro il bancone, senza tralasciare nulla, con un modo di fare molto deciso che contrasta con la pacatezza del Maresciallo. Certo, sta cercando eventuali bossoli ma sembra che la lotta ed il successo contro i mali del mondo dipendano da quella affannosa ricerca. Con un po’ di cinismo mi viene da pensare: “Chissà se gli occhi del giovane Serpico, oggi così scattanti e sgargianti, fra qualche anno diventeranno tristi come quelli del Maresciallo”. Intanto il barista ha ripreso, con fatica, a parlare: il rapinatore, appena intuì che la massa di pelo e denti gli stava venendo addosso, sparò. Un solo colpo, all’altezza del torace, e la povera bestia, senza nessun gemito, stramazzò sul pavimento. Velocemente il ladro si diresse verso il bancone, arraffò l’incasso e si dileguò lasciando solo il barista immobilizzato dallo shock. Ricevute le necessarie informazioni, ritorno vicino al cane: l’animale è steso sul fianco destro, incomincio ad esaminare il torace ma non riscontro nulla di anomalo. Prendo la zampa anteriore sinistra per ruotare il corpo e appena lo sollevo lascio una chiazza rossa sul pavimento mentre altro sangue semicoagulato cola dalla spalla destra, esce da un buco all’altezza dell’omero. Muovo la parte distale dell’arto e noto che la zampa si piega in modo innaturale a livello della spalla indicando chiaramente la frattura dell’omero. Un esame più approfondito del torace mi permette di trovare il piccolo foro di entrata del proiettile subito al di sopra dello sterno mentre l’uscita del piombo è avvenuta proprio in corrispondenza dell’osso fratturato a destra. Come poi confermerà l’autopsia eseguita il giorno seguente dai colleghi di Via Stazzi, il rapinatore aveva sparato una sola volta colpendo l’animale sul suo fianco sinistro ed il proiettile aveva attraversato tutta la cavità toracica trapassando il cuore per uscire infine dalla spalla destra. Intanto Serpico ha trovato un proiettile incuneatosi fra le piastrelle del muro proprio in punto compatibile, come traiettoria, con il luogo in cui si trovava il ladro al momento dello sparo. Riferisco tutto al Maresciallo il quale, esprimendo soddisfazione per il mio operato, mi ringrazia e mi congeda. Esco con sollievo dal locale, lascio quel luogo così carico di tensione e paura. Saluto il carabiniere assopito in macchina, salgo in auto e via a manetta verso la collina. Alle quattro sono finalmente a letto ma la notte non è ancora finita. Il fatto è che, vuoi per il brusco risveglio, vuoi per l’adrenalina che ho in circolo, e occorre tempo per smaltirla, so già dalle precedenti esperienze che ho bisogno di una trentina di minuti per sprofondare nel sonno. Minuti travagliati perché non riesco a liberarmi dai volti incontrati, il viso paziente del Maresciallo, quello fremente di Serpico, la faccia stravolta dalla fatica del carabiniere nell’auto e poi il volto del barista, il volto della paura. E probabilmente non c’era solo paura, c’era anche dolore, il dolore provocato dalla perdita del cane, il vero eroe della serata, la vittima dell’ancestrale istinto di difesa del proprio padrone. Infine aleggia nei miei pensieri anche il viso ignoto, la figura del rapinatore, chissà se aveva previsto la reazione grintosa del pastore tedesco. Certo se un cane ti attacca e tu hai una pistola la usi, ancora di più se hai già raggiunto la freddezza di sparare agli uomini. Nella mia mente passo, per analogia, dal rapinatore di Como a quell’altro che aveva un campo di azione continentale, a Napoleone, il ladro di nazioni. E mi dico, quest’uomo venuto dalla Corsica ha messo la parola fine alla millenaria storia della Repubblica di Venezia, d’accordo la Serenissima era già in liquefazione ma chi ha posto la parola fine sulla sua gloriosa storia è stato indiscutibilmente Napoleone. La Serenissima, ora ridotta al nome di un’autostrada. Venezia che mi rende triste ogni volta che la vedo perché guardando i suoi palazzi, le chiese, i campi ed i campielli immagino la grandezza del passato e la contrappongo al presente fatto solo di turismo. Povero Leone di Venezia. E pensando alla bellissima bandiera di Venezia, al Leone di San Marco, al leone alato e giallo su fondo arancione, all’incredibile fatto che le bandiere sono in verità due perché il leone tiene fra gli artigli il libro dell’Evangelista quando Venezia è in pace ma il Vangelo sparisce e compare la spada quando la Serenissima è in guerra, finalmente, mi addormento.


domenica 11 dicembre 2011

SPORTIVI - 2 –

SPORTIVI - 2 –
 Per favore, non prendetevela con i ciclisti quando li incrociate, con la vostra auto, lungo le strade: non imprecate se occupano la corsia, magari in gruppi più o meno numerosi impedendovi di andare più veloci e, quando finalmente potrete superarli, fatelo con la massima attenzione e senza arrecare alcun danno. Agendo così non solo vi comporterete da perfetti autisti ma soprattutto non interromperete lo scopo vero dell’andare in bicicletta: il raggiungimento della felicità. Vi stupite della mia affermazione? Certo, capisco il vostro sbalordimento e allora cercherò di spiegarvi come la felicità sia la logica conseguenza dell’uso della bici, raccontandovi la storia di un normale ciclista della collina. Innanzi tutto va detto che l’età media di questi sportivi è elevata, si vedono sfrecciare anche baldi settantenni ed oltre. Il nostro esempio, con i suoi quarantacinque anni, poteva giustamente considerarsi un giovane corridore. Si chiamava Bartolomeo Fasola ed aveva incominciato a pedalare relativamente tardi intorno ai quaranta anni; non che il passaggio negli "anta" gli avesse stimolato gli ardori sportivi come se inconsciamente temesse l’avanzare dell’età e cercasse di allontanare il graduale ma inevitabile deperimento fisico. Tutt’altro. Il fatto è che, sposatosi a venticinque anni, il lavoro e la famiglia avevano occupato tutto il tempo disponibile tanto da costringerlo ad abbandonare qualsiasi attività fisica. Per di più aveva un forte appetito, era un tale buongustaio da non disdegnare la preparazione di piatti raffinati; quindi potete capire benissimo che in quindici anni di matrimonio il Meo, così lo chiamavano a Ronago, aumentò il suo peso mediamente di due chili all’anno tanto da sfiorare il quintale. Non si preoccupava di assomigliare sempre di più ad un plantigrado, l’estetica non faceva parte dei suoi orizzonti, ma l'organismo non accettava più il surplus calorico ed il nostro cominciò ad accusare dapprima un senso di peso allo stomaco, come se avesse sempre qualcosa da digerire e poi avvertì, sempre più insistente, un dolore cupo, persistente al fianco destro dove le costole lasciavano spazio, quasi intimorite, alla pancia debordante. Dapprima sopportò pazientemente il dolore però nel giro di pochi giorni lo stato di malessere si aggravò quando si aggiunse l’insonnia o meglio uno stato di sopore intervallato da risvegli nel cuore della notte, con il fianco destro pungente, che gli rendevano insopportabili il silenzio ed il buio. Decise di andare dal medico il quale gli prescrisse subito gli esami del sangue; questi erano tutti nella norma ad eccezione delle transaminasi. Il dottore gli spiegò che quelle due particolari transaminasi con i valori notevolmente sballati indicavano chiaramente come la funzionalità epatica fosse compromessa e richiese un’ecografia. Il medico addetto all’analisi era un anziano professionista che alternava allarmanti silenzi con frasi in un dialetto tagliente di un cinismo esasperato. Alla fine il responso dell’esame ecografico fu: "Caru sciur al gà un fegato come un patè d’oca, anzi, per la precisiun, un vero foie gras cume disann i frances". Stordito dall’esito dell’esame in quanto confermava il cattivo funzionamento di un organo così importante, rimuginando come consolazione che il suo fegato non era all’altezza del cervello, tornò dal suo medico di base il quale lo tranquillizzò dicendogli di non agitarsi perché il fegato ha delle capacità incredibili di recupero. Certo doveva aiutare la rigenerazione epatica cambiando dieta, innanzitutto diminuendo le enormi quantità ingerite (il medico conosceva il suo pollo anche perché aveva partecipato anche lui a memorabili mangiate con il Meo) e poi abbandonare la vita del perfetto sedentario e trovarsi qualche sport da praticare così da poter più facilmente consumare i suoi considerevoli depositi di grasso. Il Fasola era un tipo che scansava volentieri i medici, però quando ne aveva bisogno ascoltava con giudizio i loro consigli. Cominciò immediatamente a diminuire il cibo e a guardarsi intorno per vedere quale attività fisica praticare. Da giovane aveva giocato a pallone ma scartò subito questa possibilità perché prevedeva il contatto fisico con l’avversario: troppi i rischi di infortuni. Gli consigliarono la palestra ma trovava alienante ripetere continuamente gli stessi movimenti per di più in luoghi chiusi, no, per lui lo sport era solo quello da praticare all’aperto, con qualsiasi tempo ma all’aperto. Infine scelse la bicicletta. Il suo amico Ivano, un pollivendolo di Lurate, gli prestò una mountain bike e così incominciò a sbuffare pigiando sui pedali. Certo l’inizio fu difficile, bastava un cavalcavia per mandarlo fuori giri, la prima volta che si avventurò fino ad Olgiate il ritorno a casa si trasformò in una tormentata ritirata con i muscoli delle gambe dolenti, il respiro affannoso e la bocca riarsa. Non si demoralizzò, capì che doveva centellinare gli sforzi, ogni giorno qualche chilometro in più. Comprese anche che la mountain bike non faceva per lui, troppo pesante e con quelle ruote dentate non adatta all’asfalto da lui preferito perché liscio e scorrevole mentre non gli piaceva pedalare sulle strade sterrate, piene di buche e sassi. Ed allora tirò fuori dal garage la vecchia Legnano gialla, la bici di quando era un ragazzo, la portò dal Valli, il meccanico di Gironico, il quale in un batter d’occhio la rimise in sesto. Con la bici da corsa era tutto un altro divertimento e con piacevole stupore si accorse di aspettare con trepidazione il pomeriggio inoltrato quando poteva uscire per una sgambata. I chilometri aumentarono, le sue gambe sopportavano sforzi sempre maggiori, ormai usciva tre volte alla settimana e con percorsi gradualmente più impegnativi. Dopo qualche mese si accorse che la sua Legnano era purtroppo una bici superata: i freni non erano sufficienti quando effettuava discese ripide, il cambio non era preciso e lo abbandonava proprio quando, sotto il massimo sforzo in salita, non riusciva a passare alla corona posteriore più grande. Tornò dal Valli, espose il suo problema ed il meccanico disse un laconico "ghe pensi mi" e si mise subito all’opera prendendogli le misure. Come un sarto il Valli usò il metro e gli controllò la lunghezza delle mani, dei piedi ed il cavallo perché la bicicletta doveva essere fatta a pennello secondo il fisico del Fasola il quale, perplesso, assisteva senza proferire parola alle manovre del meccanico. Poi scelse il colore, uno splendido azzurro, il cambio e aspettò pazientemente una decina di giorni. La bici era una Rossin, stupenda nella sua lucentezza, così leggera ma senza essere fragile, anzi, aveva un’aria robusta. Quando finalmente la inforcò capì l’importanza delle misurazioni, si sentiva veramente bene in sella ed il pedalare era armonioso, le ginocchia si piegavano e si allungavano come dei veri stantuffi, la bici fendeva l’aria e scivolava impeccabile sull’asfalto. Nella vecchia Legnano gli attacchi ai pedali erano ancora i superati laccetti; ora invece aveva gli attacchi Luer Look, come quelli degli sci, e questi meccanismi accentuavano enormemente l’unione fra il corpo del ciclista e la bici. Il Meo si sentiva veramente un corpo unico con la bici, il manubrio era un prolungamento delle mani ed i suoi piedi finivano nei pedali, le articolazioni meccaniche che lo legavano alla vera fine del suo corpo: le ruote. Quando pedalava sulle strade assolate, specialmente nei tratti di lunghe salite, dove lo sforzo muscolare non ti impedisce di vagare con la mente, meditava che gli Aztechi, quando videro per la prima volta gli spagnoli del conquistadores Hernan Cortes in groppa ai cavalli e, non conoscendo il nobile equino, pensarono atterriti che uomo e cavallo fossero la stessa persona, erano in anticipo di qualche secolo sui tempi. Il vero centauro non era dato dall’unione dell’uomo con il cavallo ma, grazie alla tecnologia, da uomo e bicicletta. Nello stesso modo capì il futurismo, l’inno alla velocità di Marinetti, i quadri di Giacomo Balla. Perché il ciclismo è veramente un inno alla tecnologia: prendiamo i pantaloncini e la maglietta realizzati in tessuto leggerissimo e speciale che permette la traspirazione, cosicché il sudore non si appiccica alla pelle, e contemporaneamente ha una funzione di barriera contro l’aria; il casco aerodinamico e gli occhiali danno un aspetto spaziale al ciclista, le bici fatte con materiali sempre più leggeri e resistenti, con freni potenti e cambi di notevole precisione. E poi l’innovazione fondamentale del contachilometri: chiamarlo così è riduttivo, perché questo aggeggio grande come un orologio e posto sul manubrio, indica anche la velocità istantanea, quella oraria, i tempi parziali e può avere funzioni particolari come l’altimetro. Così il Meo sapeva, ad ogni uscita, la velocità oraria: ormai non si trattava più di andare in bici per dimagrire perché egli era in lotta con se stesso e intuiva benissimo di condurre una battaglia continua, agonistica, per migliorare le proprie prestazioni. Un’ulteriore spinta verso l’agonismo fu la scoperta del cardiofrequenzimetro: in realtà questo strumento tecnologico costituito da una fascia elastica con gli elettrodi da indossare sotto la maglietta a contatto del torace e da un orologio, da porre sul manubrio vicino al contachilometri, indicante la frequenza dei battiti del cuore al minuto, gli fu consigliato da un medico sportivo, il Testa. Il professionista gli spiegò l’importanza di sapere la propria frequenza cardiaca per non superare la soglia aerobica oltre la quale l’organismo, andando in anaerobiosi, accumula acido lattico nei muscoli e consuma zuccheri anziché grassi. Come conseguenza ti trovi dopo una cavalcata di cento chilometri con i muscoli indolenziti per qualche giorno e nessun riscontro positivo sulla bilancia. Meo si accorse subito dei benefici del frequenzimetro, infatti salì sul Monte Generoso senza mai oltrepassare la propria soglia aerobica di 160 battiti al minuto e, diversamente dalla scalata della settimana precedente sul monte che domina il Mendrisiotto, impiegò un minuto in meno di tempo e soprattutto dormì benissimo quella notte senza dolori fastidiosi nelle gambe. Nei giorni feriali il nostro Meo rientrava alle cinque dal lavoro e cominciava subito il rito della vestizione: calzoncini, canottiera traspirante, maglietta wind stopper, calzini, scarpette, occhiali, casco e guanti traforati da ciclisti. Poi si metteva in bocca qualche goccia di propoli per proteggere la gola e prendeva la bici; un veloce controllo della pressione delle gomme e subito la inforcava dopo aver riempito d’acqua la borraccia. Di solito si dirigeva verso la Svizzera perché lì c’era meno traffico, le strade erano ben asfaltate ed i percorsi erano vari, dai più semplici sul lago di Lugano ai più impegnativi sulle montagne ticinesi. I primi chilometri, fino a Mendrisio, erano propedeutici, servivano a riscaldare i muscoli e la bici, dopodiché cominciava il vero divertimento. Cercherò di spiegarlo a chi, sfortunatamente, non ha mai provato questa ebbrezza. Iniziamo dalla parte meccanica del corpo del moderno centauro: la bici fende l’aria con eccezionale armonia, le ruote girano silenziose emettendo un lievissimo fruscio, quasi come il ronzio di un’ape, la catena, tesissima, scivola sui denti delle corone, il manubrio accoglie sia le mani del ciclista che il contachilometri ed il cardiofrequenzimetro. Le gambe mulinano sui pedali con una frequenza data dal tipo di cambio scelto, il corpo dell’atleta si incurva fra sella e manubrio cercando di essere il più aerodinamico possibile, gli occhi fissano alternativamente la strada, il contachilometri ed il cardiofrequenzimetro, la bocca, dapprima chiusa, si apre sotto lo sforzo ed il respiro si fa sempre più intenso. Improvvisamente ti senti in sintonia con la natura che ti circonda, guardi il paesaggio e ti sembra di essere in posti meravigliosi, l’attrito del vento è una dolce musica che ti vortica nelle orecchie, i tuoi muscoli sono tesi sotto lo sforzo ed il fatto che il tuo corpo reagisca agli stimoli è già per te motivo di soddisfazione come chiunque abbia praticato un qualsiasi sport sicuramente comprende. Senza neanche accorgerti, soprattutto non avendola cercata, hai raggiunto la felicità, una sensazione di benessere e di armonia fra di te, la bici e tutto ciò che ti circonda. Ed il bello è poter raggiungere la felicità da solo od in compagnia, meglio ancora se la compagnia è numerosa: il gruppo. Meo si ricordava ancora la prima volta che incontrò un gruppo. Si trovava fra Porto Ceresio e Ponte Tresa e pedalava rilassato guardando i pescatori che, con i ciclisti, sono gli unici frequentatori del lago nelle prime ore del mattino della domenica, quando sentì alle spalle un rumore come quello di uno sciame di api. Non fece neanche in tempo a voltarsi perché fu subito affiancato da due ciclisti che pedalavano con notevole impegno. Riuscì soltanto a guardargli le gambe per capire che tipo di ciclisti erano, i muscoli scolpiti e la mancanza di grasso indicano il corridore allenato, ed i due lo avevano già staccato ma fu subito affiancato da altri velocipedi che tallonavano i primi ed aspettavano per dargli il cambio. Era un folto gruppo di almeno una cinquantina di unità ed il ronzio di api era determinato proprio dal movimento di tutte quelle ruote. Meo, subito affascinato da quel turbinio di catene e sudori, cercò di resistere alla velocità del gruppo ma scivolava sempre più in fondo fino a quando fu raggiunto da un ciclista anziano che pedalava con eleganza. Doveva essere il capo branco perché ad un certo punto disse rivolto ai corridori di testa "Alura semm in prucesiun? Su bagai, su"; immediatamente chi tirava in quel momento aumentò la velocità sopra i quaranta e Meo, era ancora il primo anno di bicicletta, non poteva sostenere simili ritmi, perciò perse contatto e li vide allontanarsi fino a scomparire all’orizzonte. Questo primo incontro fu di grande stimolo per il nostro: si pose come obiettivo quello di poter resistere alle alte velocità dei vari gruppi che solcavano la domenica il lago di Lugano. Si autonominò con ironia "la zecca del Ceresio" perché la domenica ciondolava sulle strade del lago e, appena passava un plotone, zac, si metteva subito in coda a succhiare le ruote. Non pensiate che questo sia un atteggiamento da maramaldo e malvisto dagli altri corridori: qui non si tratta di una gara in cui uno limita gli sforzi per poi poter vincere una volta giunti al traguardo, no, qui ognuno dà quello che può, quindi ti metti in fondo e, se ce la fai, non ti stacchi al primo strappo. Se invece, oltre a resistere, hai anche qualche residuo di forze, cominci a tirare anche tu perché siamo tutti ciclisti quindi fratelli con lo stesso scopo, il raggiungimento della felicità. Cosicché Meo riservava l’uscita domenicale alla felicità condivisa con gli altri fanatici mentre le due uscite infrasettimanali, dove la possibilità di trovare adepti della stessa fede era inferiore, al raggiungimento della felicità individuale. Come in questo mercoledì di primavera inoltrata, temperatura ideale sui 22 gradi e poca umidità, superata la stazione di Mendrisio si trovò al bivio per la valle di Muggio: andare a destra voleva dire un percorso impegnativo con continui saliscendi, tirare dritto significava dirigersi verso il lago di Lugano, quindi strada pianeggiante dove sviluppare rapporti lunghi. Quel giorno era partito con l’intenzione di pedalare attraverso la Val di Muggio però, all’ultimo momento, cambiò idea e scelse di scendere verso il lago. Percorse a velocità sostenuta il rettilineo dove c’era l’arrivo dei mondiali del 1971 (quello dove Merckx, in volata, batté Gimondi) ed iniziò la discesa verso Capolago quando udì il segnale acustico di una Croce Rossa. A questo punto serve una piccola spiegazione: in Italia, quando si sente la sirena, chi si trova al volante di un’auto dapprima individua la provenienza del suono, cercando di capire la direzione del mezzo di soccorso, poi, rallentando, si sposta a destra per lasciar passare chi reclama precedenza e, solo se serve, si ferma a lato della strada. In Svizzera non è così: probabilmente a causa dell’influsso teutonico, il conducente, appena sente il suono stridulo della Croce Rossa, indipendentemente da dove esso provenga se di fronte od alle spalle, si sposta a destra e si ferma. Fu così che Meo, il quale sfortunatamente aveva appena finito di bere e stava deponendo la borraccia nella sua custodia sul telaio e quindi in quel preciso momento aveva solo una mano sul manubrio, si vide la strada bloccata da un’auto con targa svizzera che aveva accostato a destra, arrestandosi di colpo. Riuscì con un guizzo istintivo ad evitare lo scontro con l’auto, tuttavia il brusco movimento lo fece uscire di strada. Le strade svizzere, dove non esiste il marciapiede, hanno quasi tutte un cordolo di pietra che sopravanza di qualche centimetro l’asfalto; Meo lo toccò con le ruote bloccate dalla disperata frenata. Il cordolo funzionò come un trampolino, fermando la bici e lanciando il povero Bartolomeo contro il muro che, purtroppo, in quel punto affiancava la strada . L’impatto fu tremendo.
A volte succede. Ti impegni, cerchi di trovare stimoli che ti rendano la vita più allegra, arrivi, magari involontariamente, a compiere azioni che ti procurano una felicità immensa, tenti di ripetere questi atti per continuare ad essere appagato e, invece, improvvisamente, ti ritrovi nell’Aldilà. Destino cinico e baro dice qualcuno: frase trita e ritrita ma malauguratamente vera per il povero Meo. Altro che corpo unico con la bici, ora lui si trovava sfracellato contro il muro e la Rossin era scivolata a qualche metro di distanza tutta accartocciata, tranne la ruota posteriore. Incredibilmente, quest’ultima girò ancora per qualche istante intorno al proprio perno; ecco, mi piace pensare che l’ultimo suono percepito da Bartolomeo Fasola sia stato quel leggero fruscio.

venerdì 9 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 4 -

  Non frequento più i bar. Il fatto è che non sopporto il fumo, dopo un po’ mi fa male la testa, gli occhi bruciano e mi infastidisce che gli abiti rimangano impregnati dell’odore delle sigarette. Peccato, perché nelle osterie si trovavano personaggi notevoli che ti stimolavano il cervello, lo inducevano a muovere i suoi delicati ingranaggi sempre sottoposti al pericolo di arrugginire, a farti pensare. Il Piffaretti per esempio: il nome non ha importanza perché per tutti era "Ul Pifarett". Era anche un mio lontano parente e quando frequentavo i bar di Ronago, negli anni settanta dello scorso secolo, era ormai un pensionato che troneggiava seduto al solito tavolo con le mani appoggiate al pomello del bastone. Il viso attraversato da rughe, due baffi che scendevano a coprire gli angoli della bocca, gli occhi scuri e profondi, con le pupille dilatate che ti scrutavano per studiarti, meglio per analizzare ogni tuo singolo pensiero e poi la voce, potente e nitida, che ti aggrediva con sarcasmo. Giocavamo a scopa d’assi, lui quasi sempre in coppia con Ciccillo, un siciliano silenzioso nel senso che non diceva mai una parola, si esprimeva con la mimica facciale e gli occhi in continuo movimento. Il Piffaretti era un ottimo giocatore, qualità data da una mente matematica e dal continuo esercizio, quando rimanevi con tre carte beffardamente ti diceva cosa avevi in mano. Alla fine della partita, regolarmente bastonato e dopo aver concordato con il mio socio il pagamento delle bevande, cominciava il divertimento: eh sì, perché Piffaretti era un grande affabulatore, ti incantava con le parole e le sue idee originali; per esempio "perché non vanno d’accordo settentrionali e meridionali? Semplice, devi sapere Andrea che se un concetto si può esprimere con cinque parole, un milanese ne impiegherà proprio cinque, un comasco quattro ed un bergamasco tre mentre più si scende a Sud più le parole aumentano, un napoletano od un calabrese possono usarne addirittura 20 o 25, che spreco! Ecco, la mancanza assoluta della sintesi nei nostri terroni è la causa di tutte le incomprensioni fra noi e loro". Il bello è che a sentire queste cose Ciccillo si agitava tutto e muoveva la testa in segno di approvazione, lui che era l’esempio vivente di come i movimenti del viso potevano sostituire la parola, per nulla risentito dal termine terrone, ben sapendo che lo si usava in modo affettuoso, non per offendere. Il Piffaretti aveva lavorato per molti anni in Svizzera e, come tutti quelli della sua età che erano emigrati per lavoro nella vicina Confederazione, aveva dei sentimenti di odio e amore verso i rosso - crociati. Infatti, c’era chi aveva assimilato talmente la mentalità svizzera da integrarsi perfettamente in quel mondo, sposarsi, ragionare come uno svizzero e magari essere ancora più spietati nel cogliere tutti i nostri difetti e c’era chi, come il Piffaretti appunto, pur conscio dell’ordine e della forza dello Stato Elvetico non poteva dimenticare le proprie origini e aveva sviluppato un senso di diffidenza se non di sospetto per tutto quanto avesse a che fare con la Svizzera; inoltre non dimenticava che alla fine della guerra un suo zio, che aveva un negozietto a Chiasso, si era trovato le vetrine infrante a sassate e, si pensava forse a ragione, rotte non tanto in quanto il negoziante fosse fascista ma perché Italiano. Così nessuno si stupiva del fatto che un gran parlatore come il Piffaretti non dicesse mai nulla della Svizzera anzi, quando si parlava di qualche svizzero, troncasse subito il discorso dicendo "passaporto rosso" alludendo al colore del passaporto elvetico ma facendo capire che, proprio per quello e trattandosi di un confederato, era inutile parlarne. Invece dove il Piffaretti rifulgeva era quando si riferiva al suo paesello; l’amore per Ronago era straripante, esplosivo, tale che vedeva difetti incredibili in tutti gli altri: per esempio Uggiate era un paese, chissà perché, di pettegoli, e Olgiate un paese di matti, con un grado di pazzia tale che solo un santo come San Gerardo poteva intercedere e salvarli. Giustificabile, quindi, la devozione degli olgiatesi per il Santo e comprensibile, anzi obbligatorio, il pellegrinaggio verso Monza ogni 25 aprile per onorarne le spoglie. I Laghèe e i Valtellinesi erano naturalmente buoni solo per il contrabbando, gli abitanti di Como dei cittadini con la puzza sotto il naso e Milano, beh fin dai tempi di Renzo Tramaglino andar a Milano è sempre stato un casino. Il resto del mondo era, immancabilmente ed irreversibilmente, zona depressa; con un mantovano finì quasi a botte quando sentì dire che la sua bella città padana era zona depressa. Il fatto è che Piffaretti con questa espressione non intendeva assolutamente dare un giudizio economico, la sua era una considerazione prettamente etimologica, la zona depressa era tale perché gli procurava depressione, essendo Ronago l’unico luogo in cui si potesse vivere felicemente. Talmente immenso l’amore per il suo luogo natale che Piffaretti arrivava al limite di considerare Ronago l’Unico Vero Paese Italiano: infatti, affermava che, essendo Ronago per tre quarti circondato dalla Svizzera e cominciando il Sud, meglio la Terronia, a Trevano, Ronago era per forza l’Unico Paese Italiano. Don Ciccillo annuiva gravemente con la testa, non ho mai capito perché convinto dell’ineluttabilità del discorso del Piffaretti o perché così si allargavano enormemente i confini del Sud. Ecco che cosa ho imparato dal Piffaretti: l’amore per il proprio campanile; certo lui estremizzava tutto tale era la potenza della sua forza polemica, ma il dato di fondo della sua limitata concezione del mondo, lo struggente legame con il luogo natale, nobilitava tutti i suoi pazzi ragionamenti. Il campanilismo in lui assumeva un che di nobile, e poi, cosa c’è più bello di un campanile, svettante verso il cielo, come simbolo della ricerca di Dio? Perché, si chiedeva Piffaretti e me lo chiedo anch’io, ora fanno le chiese senza il campanile? Poi non è che Piffaretti fosse tenero anche con i ronaghesi: quell’astio mai sopito e sotterraneo fra gli abitanti della parte alta e quelli della Valmulini lui l’avrebbe risolta drasticamente. Affermava che "la sfortuna di Ronago risaliva alla notte dei tempi quando i ghiacciai si sciolsero e crearono il Lago di Como: il fatto fu che si ritirarono troppo e si formò la Val Mulini, pensa Andrea se si fossero sciolti con minor vigore e al posto della valle ci fosse stato il lago! Che bello sarebbe andare a Drezzo in barca". Don Ciccillo approvava con la testa e gli occhi guardavano fissi davanti forse immaginando la barca che solcava l’acqua. Nel suo piccolo Piffaretti, senza saperlo, tramandava l’eterno campanilismo che contraddistingue l’italica gente: compatti verso gli altri paesi o città e in eterna lotta fra fazioni nel proprio territorio, quello che è magnificamente rappresentato dal Palio di Siena, città sempre in lotta con gli altri borghi toscani ma poi suddivisa all’interno dalla acerrima divisione in contrade. Adesso il Piffaretti non c’è più a sorprendermi con le sue idee e non c’è più Ciccillo, morto al bar, seduto al suo solito posto: prima di morire disse "aiu siti" (ho sete) e molti degli astanti non fecero in tempo a meravigliarsi perché non avevano mai sentito la sua voce che Don Ciccillo stramazzò, colpito da un infarto. Con Piffaretti è scomparso definitivamente da Ronago questo cognome così tipicamente ronaghese. Se ne è andato prima di conoscere che un Piffaretti (di lingua francese!) giocava addirittura nella nazionale di calcio elvetica e senza sapere che io ho parlato con un Piffaretti di Lomazzo il quale mi disse che la sua figlia, con lavoro in Svizzera, desta stupore nei suoi colleghi elvetici perché, stranamente per loro, con quel cognome è italiana e non svizzera. Di sicuro il Piffaretti non avrebbe approvato; però i cognomi seguono gli spostamenti di chi li porta e non c’è da stupirsi se poi vanno a finire dove non dovrebbero.
18 mar, '03, 9:41 m.

mercoledì 7 dicembre 2011

SPORTIVI -1-
Due volte la settimana, da ottobre a giugno, ci troviamo nella palestra del Liceo Scientifico Terragni di Olgiate Comasco per giocare a badminton. Al novantanove per cento degli italiani che non sanno cosa sia il badminton spiego che si tratta semplicemente del volano, quell’attrezzo fatto con sughero e piume che ha allietato i giochi di molti bambini negli anni sessanta. Le regole sono una via di mezzo fra la pallavolo ed il tennis (ci sono le racchette ma la rete non tocca il pavimento) si può giocare singolarmente o in coppia. E’ uno sport veloce e divertente e, non essendoci il contatto fisico con l’avversario, si può praticare a qualsiasi età; infatti, l’età media di noi quattro gatti viaggia pericolosamente verso la cinquantina. Nonostante ciò la voglia di vincere è enorme, l’agonismo è sfrenato, a momenti non ci riscaldiamo tanto è l’ardore della competizione. Pur di primeggiare gettiamo il cuore oltre l’ostacolo; questo non significa che siamo disposti a commettere slealtà, nessuno di noi direbbe, per fare un punto, che il volano ha toccato terra oltre la linea se non fosse vero. E così anche questa sera di febbraio ci vede correre per due ore, colpire con violenza il volano o accarezzarlo delicatamente con la racchetta. Sto giocando contro il Geriatric Team (Roberto e Franco, entrambi classe 1943) e mentre sudo penso che quei due quando giocano assieme moltiplicano le forze. Intanto il mio compagno, Enrico detto l’incredibile Hulk per la potenza della schiacciata, sta urlando perché ha sbagliato un colpo facile: niente paura li stracciamo quei due vecchiacci. Nel campo vicino Gilberto ed Ivano si sfidano in un singolo massacrante. Gilberto era mio compagno di liceo, posso affermare che con lui ho passato il tempo a giocare, quando eravamo studenti pallone e tennis ed ora il badminton che mi ha fatto conoscere sei anni fa; Ivano si impegna allo spasimo nonostante oggi  abbia donato quasi mezzo litro di sangue. Nulla ci può fermare, neanche il fatto che stanno cambiando le piastrelle del corridoio e un sottile strato di sabbia ha invaso il campo da gioco costringendoci a respirare più polvere sottile qui che nel centro di Como. Nella palestra si pensa esclusivamente a vincere e, mentre i muscoli e le articolazioni scricchiolano ed il cervello cerca con fatica di coordinare tutto, ottengo due scopi: libero il fanciullo che c’è in me ed escludo dai miei pensieri, per un tempo breve ma sufficiente, le cicatrici della vita.
21/02/2002

martedì 6 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 3 -
 
Non potete rendervi conto di cosa sia un macello industriale. Già l’aggettivo industriale indica un alto numero di animali macellati, una catena continua che parte dai recinti di sosta, prosegue in un percorso obbligatorio che porta ad una gabbia metallica dove il bovino viene stordito e poi dissanguato infine appeso ad un gancio e trascinato via, via lungo un binario che lo conduce, dopo varie operazioni come la spellatura e l’eviscerazione, alle celle frigorifere. Questo percorso infernale è segnato da una striscia rossa più o meno debordante ed invasiva: naturale, direte voi, cosa volete che ci sia in un macello se non il colore del sangue? Certo, ma quello che ancor oggi mi stupisce dopo tanti anni di lavoro nei mattatoi è la variazione che può assumere il colore rosso del sangue. Quando vengono recisi i vasi del collo ha un colore intenso, vinoso e rutilante. Nelle vasche di raccolta, permane sangue coagulato che si raccoglie in strati violacei, quasi neri. Poi, lungo la catena, sgocciola dalle carcasse con un colore amaranto e sul pavimento si mescola con l’acqua, sempre presente ed abbondante nei macelli, dando luogo a striature multiformi, sempre diverse e con tonalità più chiare con l’aumentare del gettito dell’acqua; per non parlare degli schizzi sui vestiti, candidi all’inizio della macellazione e poi sempre più macchiati di sangue il quale essiccandosi lascia un alone rosso marrone.
Correvano i primi anni del novanta in quel macello di Villa Guardia che ora non c’è più, bei tempi, in cui solo noi addetti ai lavori sapevamo che lassù, in Inghilterra, le vacche erano colpite da uno strano morbo che le faceva impazzire. Alle sei e trenta di quel lunedì, con qualche minuto di ritardo sull’orario prestabilito, davo il via alla macellazione. Era ancora buio in quella mattina di fine inverno e fra le luci al neon del macello girava la solita fauna: cento vitelli bresciani, attori muti della rappresentazione, macellatori vestiti di bianco e dai coltelli affilati ed infine io, il veterinario, che doveva controllare che tutto avvenisse come legge comanda. All’inizio della macellazione solo la prima parte della catena è animata e solo i macellai addetti allo stordimento e alla iugulazione (parola che potrebbe avere un suono affascinante se non indicasse l’incisione dei grossi vasi del collo e, di conseguenza, la morte dell’animale) lavorano fra i cigolii metallici delle porte della gabbia e dei ganci. Gli altri macellatori addetti alle operazioni successive aspettavano chi affilando i coltelli, chi verificando il funzionamento della propria pedana.. Fra questi c’era il Gianca, un quarantenne di altezza media e con un ciuffo sbarazzino che la cuffia ancora bianca non riusciva a trattenere. Dovete sapere che molti macellatori sono di altezza al di sotto della media e quello che hanno perso in altezza hanno guadagnato in muscolatura e si sprecano i soprannomi come macelarin e mezanel; d’altra parte i macellai di statura superiore alla media sono chiamati in quello strano mondo con vezzeggiativi cosicché personaggi corpulenti per contrappasso si portano addosso nomignoli come Carluccio o Peppino. Il Gianca non rientrava nelle due categorie citate ed era solamente e per tutti il Gianca e quella mattina affilava i coltelli con aria pensierosa e uno sguardo fisso nel vuoto. Mi accorsi che, pur non avendo ancora partecipato alla macellazione, aveva quattro strisce rosse su una guancia; avvicinandomi notai che erano chiaramente il segno di graffi. “Che ti è successo Gianca, sei andato a letto con un gatto?” gli chiesi. Lui mi rispose subito quasi avesse un peso sullo stomaco e non aspettasse altro che la mia domanda per liberarsene immediatamente: “Eh dutur, sapesse cosa mi è capitato” e cominciò un racconto a puntate, la catena non permette interruzioni o perdite di tempo, che si protrasse per gran parte della mattinata. La sua storia cominciava circa dieci anni prima di quella mattina quando il Gianca ebbe un piccolo incidente ad Olgiate: nulla di grave per fortuna, una mancata precedenza aveva provocato una piccola ammaccatura perché le due auto non andavano a velocità sostenuta e per la prontezza di riflessi del Gianca che si era subito accorto della errata manovra dell’altro guidatore e, suonando il clacson, aveva limitato i danni. Incidenti che capitano tutti i giorni tranne che dalla macchina investitrice scese un uomo corpulento che, invece di riconoscere la propria colpa, cominciò ad inveire con vigore. Il Gianca non aveva nessuna intenzione di litigare, per di più quella sera si trovava in dolce compagnia, anzi era persino sposata e, capirete, non aveva alcuna intenzione di fare pubblicità alla sua tresca perciò rispose con pacatezza all’irruenza dell’investitore. Questi probabilmente scambiò l’atteggiamento del macellaio per arrendevolezza o forse qualche parola conciliante gli parve invece come una presa in giro, fatto sta che cominciò a muovere le mani. Il Gianca evitò i primi fendenti, non voleva assolutamente che la faccenda degenerasse, però qualche pugno lo prese e alla fine perse la pazienza. Erano già quindici anni che esercitava la professione di macellaio e grazie al suo lavoro aveva due braccia muscolose ed agili, non ci mise molto ad avere il sopravvento sull’avversario e con un paio di colpi ben assestati lo sbatté violentemente contro la portiera dell’auto provocando molti più danni ora dell’incidente. Si avvicinò al rivale intontito dai colpi e, prendendolo ruvidamente per la camicia, lo sollevò all’altezza del finestrino con l’intenzione di dargli una bella mano di bianco quando, all’improvviso, qualcosa lampeggiò attraverso il finestrino. Il Gianca strizzò gli occhi e guardò meglio all’interno dell’auto: da non credere, quello che a lui sembravano dei luccichii non erano altro che due occhi sgranati e terrorizzati di una bambina. Incredibile, quel rimbambito che aveva fra le mani come un sacco di patate non solo provocava incidenti, non solo voleva risolvere la questione con le botte e, pur non essendo riuscito a cambiargli i connotati gli aveva ormai rovinato una serata splendida con una tipa che stava inseguendo da un po’, quel rimbambito dicevo, si portava appresso anche una bambina, presumibilmente la figlia. Quegli occhi impauriti gli fecero passare subito la voglia di picchiare: mollò la presa sull’uomo, salì in macchina e con una veloce manovra se ne andò. Però quegli occhi impauriti gli rimasero ben fissi nella mente per molto tempo, nonostante la serata fosse finita in modo brillante, la donna di quella sera non fu turbata dall’accaduto, anzi, gli disse “Non solo hai un bel ciuffo, sei anche tremendamente macho”.
Passarono gli anni e il sabato sera precedente la seduta di macellazione il Gianca si trovava nella nota discoteca di Bizzarone quando, non si sa come, si trovò a ballare con una graziosa giovane dall’apparente età di vent’anni. Come avrete ormai capito il Gianca di donne se ne intendeva ed egli si rese subito conto dell’interesse che aveva creato nella ragazza; fatto sta che, compreso che quella voleva concludere degnamente la serata, la invitò nella sua dimora. Lei accettò subito e, dopo poco minuti ciascuno sulla propria auto perché la donna aveva voluto così, raggiunsero l’abitazione del macellaio. Il Gianca si comportò da perfetto padrone di casa, le offrì da bere e, mascherando benissimo le sue intenzioni ed il suo orgoglio (“Dutur, a quarant’anni suonati riesco ancora a cuccare una ventenne!”), instaurò una piacevole conversazione. Dopodiché, quando ormai aveva ritenuto essere giunto il momento opportuno, pose la mano delicatamente intorno al collo della ragazza e il suo sguardo, beh il suo sguardo spiegava benissimo senza parole cosa avesse intenzione di fare. La giovane donna per un istante rimase come di ghiaccio, impallidì, pose sul tavolo il bicchiere e, zac, con mossa fulminea della mano destra graffiò la guancia del Gianca. Questi, più sbalordito che impaurito, stava per aprire bocca quando gli occhi della ragazza gli bloccarono immediatamente la salivazione: in un attimo si accorse che quegli occhi erano proprio quelli della bambina dell’incidente di dieci anni prima. Non si era ancora ripreso dallo stupore per la sconvolgente scoperta che la donna, dopo aver rovesciato il tavolo e spaccato il bicchiere, si era già allontanata velocemente.
Ed ora il Gianca era qui che mi chiedeva “Perché dutur? Perché tutta quella messinscena, non poteva dirmi tutto subito, anzi non poteva evitarmi del tutto?” Mi faceva queste domande nella convinzione, diffusa nel mondo dei macellai, che, avendo studiato, potessi trovare una soluzione a tutto. Figurarsi, lo studio non serve a dar risposte di questo tipo, meno che meno ad entrare nella testa di una giovane che, agendo in quel modo teatrale, probabilmente voleva vendicare il proprio padre e c’era riuscita, visto come aveva tramortito il povero Gianca. No, non avevo parole che potessero sollevarlo, solo dargli il conforto di sentire il suo sfogo.
Intanto la macellazione era finita, il macello aveva ripreso il suo aspetto lindo, bianco quasi come una camera operatoria. Si sentiva laggiù il gocciolio di un rubinetto. Di rosso adesso c’erano solo i segni dei quattro graffi sulla guancia del Gianca.
 
 
Ronago 07/06/2001

domenica 4 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 2 -

Aurelio Brigazzi era un dentista. Negli anni sessanta del secolo scorso non c’erano tanti odontoiatri come adesso dove gli studi dentistici spuntano come funghi e le ortodonzie dilagano in bocche di tutte le età, mentre allora i cavadenti, come venivano affettuosamente chiamati, erano solo due, il Brigazzi ed il suo concorrente Comolli. Entrambi avevano lo studio nel paese principale della collina, si dividevano equamente i clienti, ognuno correggeva gli errori dell’altro e andavano discretamente d’accordo; da veri gentiluomini superavano senza indugi le incomprensioni così frequenti nelle professioni mediche. Mentre il Comolli, abitando a Como, si vedeva poco al di fuori degli orari di ambulatorio, Aurelio Brigazzi risiedeva nei pressi del suo ambulatorio. Alto, sulla sessantina, con due baffi ben curati e dei modi da gran signore, aveva un carattere riservato che però non lo esentava da qualche innocente estrosità. Per esempio, non andava a messa nella sua parrocchia, ma sceglieva quella di un paese vicino, dove si recava regolarmente con la moglie ed i tre figli. Questo comportamento generava stupore nei parrocchiani dei due paesi: non che fosse insolito lo scambio di chiese fra gli osservanti, anzi si diceva che giù nella bassa, dove le colline dolcemente lasciavano posto alla pianura, ci fosse una migrazione da una parrocchia all’altra perché un prete diceva messa molto più velocemente dell’altro curato. Atteggiamento non certo da buon cristiano, forse più comprensibile considerando che certa gente abituata a vivere a cento all’ora trova tempo perso stare con le mani in mano e seduti ad ascoltare prediche; così, con il semplice scambio di chiesa, si salvava il precetto impiegando, o perdendo a secondo dei punti di vista, il minor tempo possibile. Non era certo questo il motivo che spingeva il Brigazzi a cambiare parrocchia, per di più il curato del paese vicino, Don Lino, non era certo un prete veloce, anzi, era un mistico che intervallava le frasi con lunghi silenzi meditativi durante i quali, con lo sguardo rivolto verso l’alto, gli occhi socchiusi e la bocca atteggiata ad un lieve sorriso, sembrava che dialogasse direttamente con Dio. Per di più il suo eloquio era fatto di ragionamenti più contorti che lineari non avendo per nulla l’arte oratoria, non era trascinante come molti suoi confratelli. Fu così che con vero sconcerto gli abituali frequentatori della funzione domenicale si accorsero che il Brigazzi prendeva gli appunti: quando Don Lino si avvicinava al microfono per iniziare la predica, il dentista traeva dalla tasca un piccolo quaderno e, diligentemente, scriveva. Cosa scrivesse non si seppe mai ma tale fu la sorpresa che subito il paese si divise in due contrapposte fazioni. La prima, composta dai cattolici praticanti, favorevolmente sorpresa dall’iniziativa del Brigazzi il quale venne subito fatto esempio di come dovrebbe essere un cattolico osservante e timoroso di Dio. La fazione era capeggiata da Elio, un ciabattino che non si perdeva una messa, un cattolico che giungeva al limite del bigottismo senza mai superarlo, ammiratore del dentista e della sua devozione, anzi, un po’ invidioso del fatto che l’idea degli appunti fosse venuta al medico e non a lui, invidia che gli saliva dal profondo dei pensieri ma che subito, grazie ad una vita spesa a controllare i propri impulsi verso qualsiasi tipo di male, ricacciava vittoriosamente indietro. La seconda era composta da varie categorie, tutte accomunate dall’avversione verso lo scrivano: quella degli scettici, molto numerosa, che pensava "ma cosa c’era mai da annotare della predica di Don Lino essendo questa un fatto privato più che un sermone, un dialogo fra il prete e l’Altissimo", quella dei critici feroci, cioè di quelli che hanno il piacere di trovare i difetti nei praticanti, quasi che lo scoprire la pagliuzza nell’occhio altrui mitigasse la presenza della trave nel proprio e che giudicava il Brigazzi un bigotto sbruffone (paolotto bauscione) fino a giungere al capo della fazione, Libero, l’Ateo Dichiarato. Era questi uno spedizioniere, scapolo, che lavorava a Chiasso: pur avendo frequentato solo le scuole elementari, aveva la passione della lettura e passava molte serate praticando questa utile ginnastica mentale (i vicini quando vedevano una luce fioca provenire dalla sua casa commentavano: "Ul Liberu al studia"). Aveva cominciato leggendo una intera enciclopedia e poi, preso da una insana passione politica, si era gettato sui testi marxisti e, con una ostinazione ammirevole, riuscì a metabolizzare quei libri indigesti. Il suo linguaggio chiaramente ne risentiva: i suoi discorsi al bar erano inframmezzati da parole come "sovrastruttura", "lotta di classe", naturalmente dopo che ci si era fatti la "coscienza di classe" finanche usava ogni tanto un terrificante "lumpenproletariat" che stordiva definitivamente gli amici. Uno che non si stancava mai di ascoltarlo, e non era una impresa ardua dato che Libero aveva una parlantina accattivante, era proprio Elio il quale apprezzava il fervore di Libero e, in cuor suo, aveva il desiderio di convertirlo. Si, perché Libero era un ateo convinto e le sue discussioni con Elio finivano sempre per toccare la trascendenza. Gli appunti del dentista non potevano non essere un motivo di contrasto fra i due, così diversi ed in disaccordo su tutto da essere ottimi amici, e il circolo assisteva estasiato ai loro diverbi. Elio, a bassa voce e con il suo gesticolare misurato, elogiava il comportamento del Brigazzi " un così bravo padre di famiglia, un esempio per noi tutti", Libero rispondeva con la sua voce potente e resa roca dalle molte sigarette "come dice Marx la religione è l’oppio dei popoli e quel cavadenti, non contento della sua dose quotidiana, prende nota di quel che dice il prete per potersi drogare il cervello anche a casa, ma la fine del capitalismo è ormai prossima e allora, con la immancabile vittoria del proletariato, le superstizioni religiose saranno spazzate via". A questo punto Elio rispondeva che "prossimo alla fine è il tuo cranio, sta scoppiando, talmente è pieno di panzane comuniste", Libero ribatteva di nuovo (senza mai bestemmiare perché "non puoi offendere chi non esiste" e questo atteggiamento piaceva molto a Elio che non sopportava le bestemmie specialmente quando erano dette da cristiani) e la serata al bar scorreva velocemente per la gioia sia degli avventori che del gestore, felice di avere due clienti di livello come quelli, altro che i soliti ubriaconi e perditempo.
A gettare nuova benzina sul fuoco delle discussioni fu lo stesso Brigazzi, con il suo comportamento sempre più bizzarro: dapprima comprò una moto Harley - Davidson con cui sfrecciava indossando un giubbetto di pelle, borchie e stivaletti, poi i suoi clienti notarono che le sedute nello studio si allungavano notevolmente perché rimaneva spesso al telefono per tenere lunghe conversazioni sottovoce, disinteressandosi del paziente lasciato per periodi spropositati a bocca aperta. Tutto fu chiaro quando il dentista una mattina uscì con la moto e non ritornò perché era scappato con l’amante. La notizia si propagò in un baleno e scoppiò fragorosamente anche perché nessuno era a conoscenza di un pettegolezzo così ghiotto: Brigazzi era riuscito a nascondere a tutti la sua relazione.
Il paese non poteva non dividersi nuovamente fra due fazioni: questa volta però ci fu uno scombussolamento notevole fra i difensori e gli accusatori del dentista in fuga. Molti di quelli che prima lo avevano difeso ora lo accusavano ferocemente e viceversa. Elio e tutti i cattolici praticanti non si spiegavano come un così preciso osservante delle leggi religiose potesse aver perso la testa dietro ad una gonna e, come prima lo avevano incensato molto al di sopra dei suoi effettivi meriti, ora lo criticavano con durezza. L’altra fazione era divisa fra quelli che avevano un motivo in più per diffidare di chi definiva spregiativamente come dei baciapile (rudemente dicevano "più pregano, più te la mettono in quel posto") e chi invece approvava il comportamento del Brigazzi e fra questi il più rappresentativo era naturalmente Libero. L’Ateo Dichiarato ascoltava il suo amico Elio che con tono dimesso diceva "ma come è possibile che una persona così ammodo passi velocemente da una vita irreprensibile ad una senza morale, non ha pensato alla moglie, ai figli.." e poi esplodeva con la sua voce tribunizia "ma non capisci che
questo caso è un esempio lampante della crisi della borghesia, dello sfilacciamento del suo cardine principale, la famiglia? Il Brigazzi si è finalmente liberato dei lacci imposti dalla religione, il suo comportamento indica a noi proletari che la fine del capitalismo è ormai imminente". Elio non ribatteva all’amico ateo e marxista, la sua prostrazione era infatti tale da avergli azzerato ogni spirito polemico: si, perché lui si considerava una vittima del Brigazzi, non certo come la moglie ed i figli ma anche lui vittima, lui che aveva creduto nella forza morale e religiosa del dentista ora si sentiva profondamente deluso, tradito.
In seguito, quando si seppe qualcosa di più concreto sulla fuga, una terza fazione apparve numerosa nel piccolo villaggio, quella che assegnava tutta la colpa all’amante. Intendiamoci, non si trattava di dare la colpa alla donna tentatrice che aveva ammaliato con chissà quali diavolerie il buon padre di famiglia; questa fazione nacque al diffondersi della voce che l’amante fosse svizzera. Cosa importa la nazionalità dell’amante, vi chiederete? Probabilmente nulla nel resto della penisola, ma aveva fondamentale importanza per una parte della popolazione di quel paese, così orgogliosamente fiera di essere distinta dai Confederati, nonostante la geografia e la storia le avessero assegnato una posizione non distante dalla Svizzera.
Ad onor del vero e tralasciando la nazionalità della donna, questa aveva conosciuto il Brigazzi in un momento particolare della sua esistenza, quella in cui un uomo vede l’inarrestabile trascorrere del tempo e, più o meno consciamente, si aggrappa a qualcosa che lo illuda che l’inesorabile passare degli anni possa essere fermato. Quel qualcosa aveva le sembianze di una donna di bell’aspetto, sulla trentina e con una conoscenza del mondo tale da accorgersi subito di aver a che fare con un pollo. Infatti, dopo un mese passato dai due piccioncini in Riviera, fra spiagge, locali alla moda, l’immancabile Casinò di Sanremo e uno sfavillio di vestiti e gioielli, come si accorse che il conto corrente del dentista era ormai prosciugato, la donna prese il volo, naturalmente dopo aver detto "Aurelio, scusa ma c’è troppa differenza di età e di interessi fra di noi, non può durare, finiamola ora che siamo ancora in tempo" e via verso un’altra avventura e un altro portafoglio.
Crollati gli impossibili sogni di giovinezza, con forti dolori muscolari ed articolari dovuti ad un uso sconsiderato della moto, al Brigazzi non restò che tornare mestamente a casa; dopo aver vagliato con cura tutte le alternative alla fine considerò che Matilde lo avrebbe perdonato. Ovviamente la moglie aveva sofferto tantissimo il tradimento, giunto veramente inaspettato, mai avrebbe sospettato dell’infedeltà del marito. D’altronde il Brigazzi fino a quel momento aveva condotto una vita coniugale irreprensibile. Matilde aveva passato dei giorni di immensa prostrazione, non si spiegava quello che era successo, se avesse sbagliato qualcosa o se fosse stata tutta colpa di Aurelio. Alla fine di quei giorni angosciosi le rimase un odio feroce verso il consorte, odio che l’aiutò a reagire e ad uscire dallo stato di prostrazione che l’aveva fatta dimagrire velocemente. Fu così che quando vide il marito apparirle all’improvviso un pomeriggio inoltrato, l’ira le salì subito a livelli mai conosciuti prima e, gridando con voce isterica "Come osi presentarti davanti a me, porco!", gli mollò con tutta la forza possibile un tremendo ceffone. Il Brigazzi incassò lo schiaffo e, a capo chino, quasi piegato su se stesso, disse con un fil di voce: "Ho sbagliato, ti chiedo perdono". Matilde che in quei giorni passati tormentandosi aveva pensato a terribili punizioni da applicare al fedifrago, ora che lo aveva di fronte così annichilito, quasi tremante con le ultime penne da galletto metaforicamente sparse per terra dal violento manrovescio, ebbe compassione di quel rimbambito che poi era sempre suo marito e lo riaccolse in casa, naturalmente dopo avergli fatto espiare l’errore con tutte le armi della perfidia femminile. Il Brigazzi espiò e, da allora, si comportò sempre da perfetto coniuge. Dopo un po’ si rivide anche alla messa domenicale, però nella chiesa del paese di residenza e senza quaderno e matita di scorta, con Matilde che affrontava a testa alta le immancabili malelingue.
La tranquillità tornò in collina, tutti erano contenti, ad eccezione dei pettegoli ai quali era stato tolto un così ghiotto motivo di conversazione e di tutti quelli che gioiscono delle altrui disgrazie. Era soddisfatto Elio, il quale meditava sul fatto che un grande insegnamento del Cristianesimo è quello di non giudicare, e lui come aveva giudicato! Ora, chiedendo mentalmente perdono per il peccato commesso giudicando il dentista, traeva nuova linfa per il suo fervore di praticante.
E Libero? Libero non era in condizione di commentare quanto era successo: infatti stava subendo una devastante crisi …mistica. Eh sì, l’Ateo Dichiarato, il mangiapreti, aveva finalmente letto tutto quanto avesse scritto Marx e non volendo più leggere testi filosofici, perché riteneva il Gigante di Treviri insuperabile ed unico, e avendo ormai una esigenza quasi fisica per la lettura, era passato ai grandi romanzi dell’Ottocento. Per affinità ideologica, aveva scelto i grandi romanzieri russi: incominciò con Resurrezione di Tolstoj e, quasi con angoscia si accorse di essere colpito dal forte sentimento religioso dell’autore. Poi passò a "Delitto e castigo" di Dostoevskij e rimase sbalordito dalla storia del giovane Raskòlnikov e del suo delirio di onnipotenza che lo portò a commettere un terribile delitto. Affascinato da Dostoevskji, da gran metodico quale era, volle conoscere tutto del grande romanziere che scriveva per pagarsi il vizio del gioco: fu così che si imbatté nella frase "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Questo famoso e semplice detto di Dostoevskji incredibilmente esplose nel cervello scientificamente marxista di Libero e lo sconvolse, neanche fosse Sauro di Tarso folgorato sulla via di Damasco. Lentamente ma inesorabilmente questa frase sgretolò tutte le sue convinzioni marxiste sull’avvento del paradiso in terra, avvento che non escludeva l’uso della violenza. Appunto, quando si comincia a tollerare la violenza, poi si permette tutto, altro che il paradiso in terra. Così quella frase, come l’acqua col passare degli anni leviga la pietra, aprì la mente di Libero ad una nuova visione della realtà: non più umanocentrica, basta con l’illusorio umanesimo socialista e le sue promesse irrealizzabili, e tesa verso il trascendente. E questo fu il primo passo; una volta stabilito che Dio doveva esserci, Libero si pose il seguente quesito: in quale Dio, fra i tanti adorati nel mondo, egli doveva credere? La scelta cadde facilmente sul Dio della religione cattolica perché, e qui l’anticlericale rispuntava, se la Chiesa Cattolica in duemila anni di esistenza non è stata distrutta dai preti, questo è il segno della Sua divinità. E così l’orgoglioso Ateo Dichiarato si ritrovò, nel giro di un anno tormentato, schierato nel mondo cattolico: certo cattolico sui generis, che andava a messa tre volte all’anno e non si confessava essendogli rimasto un certo astio verso i preti, ma ora fieramente credente e che preparava un pellegrinaggio a piedi fino a Santiago di Compostela come i pellegrini del Medioevo. A noi non resta da commentare questo strano caso di Libero traviato dalla filosofia e redento dalla letteratura migliore, quella dell’Ottocento. Del resto, si sa, le vie del Signore sono infinite. 
Ronago, 10/12/2000
 


STORIE DI CONFINE - 2 –

Spallone, bricolla, termini di cui si sta perdendo il significato ma che a metà del ventesimo secolo erano ben conosciuti nei paesi di confine: negli anni sessanta e settanta era normale vedere, anche in pieno giorno, i contrabbandieri in lunghe file indiane, quasi in processione, portare sulle spalle dei parallelepipedi, pieni di sigarette, che superavano largamente le loro teste, le bricolle appunto, e spalloni erano chiamati chi le trasportava. Capitava anche di sentire “Stanotte ho lavorato” e chi parlava non aveva di certo fatto un turno di notte in stamperia; il bello era che usavano il termine lavoro con nessun intento ironico, il contrabbando non era considerato qualcosa di illegale ma un vero e proprio lavoro.
Il Genesio era un contrabbandiere. Era anche un laghèe, termine che indica, come ben sapete, chi proviene dai paesi che circondano il lago di Como. I laghèe sono sempre stati degli ottimi contrabbandieri, fra i migliori, avendo forse innata quella voglia di fare cose illecite che il nostro dialetto sintetizza magnificamente con i termini “de sfroos”, parole che indicano proprio quelle azioni fatte di nascosto perché palesemente scorrette.
Il Genesio era un giovane tarchiato, con i capelli neri e ricci, la pelle quasi olivastra cioè caratteristiche somatiche che potrebbero sembrare più mediterranee che padane se non sapessimo che sono frequenti sul lago ed in Valtellina. Aveva movenze rapide e precise, come un felino, e, nonostante la giovane età, aveva già portato in Italia molte bricolle tanto che, con i primi guadagni, si era comprato una moto da cross, una KTM, un nome che chi era giovane in quei tempi, in cui si diffuse molto questo sport fracassone, ricorderà sicuramente con nostalgia. Il nostro spallone con la moto ci sapeva fare ed aveva partecipato anche a qualche gara, comportandosi onorevolmente. Gli organizzatori dei traffici d’importazione di sigarette pensarono di sfruttare questa predisposizione. Fu così che Genesio si trovò trasformato da spallone in palo: per la verità, il termine è un po’ improprio, visto che il suo incarico era quello di controllare i movimenti della Guardia di Finanza facendo finta di allenarsi con la sua moto nei boschi dove sarebbero passati gli spalloni ed il fatto che avesse partecipato a delle competizioni gli sarebbe servito come alibi nel caso i finanzieri si fossero insospettiti a causa della sua presenza vicino al confine.
In un pomeriggio invernale sul finire degli anni sessanta, Genesio si trovò con la sua moto in una ben determinata zona boschiva fra Uggiate e Ronago casualmente vicina alla rete confinaria. Il suo compito era chiaro ed anche facile e dopo un andirivieni che sembrava frenetico ma che invece era stato studiato esclusivamente per anticipare e segnalare il possibile arrivo della Finanza, ormai tranquillizzato, si fermò su un piccolo cocuzzolo, a lato del sentiero, che in quel punto era parallelo al confine, da dove poteva osservare il possibile arrivo di persone indesiderate. Aveva calcolato con i suoi capi che il passaggio delle “bionde” sarebbe durato circa un’ora e, proprio mentre questo periodo si stava concludendo, vide in lontananza una macchina che gli sembrò un’Alfa Romeo Giulia con il caratteristico colore grigio verde della Tributaria, la tribù nel gergo della mala. Preso dall’agitazione, Genesio fece per avviare il potente mezzo ma gli scivolò il piede, perse l’equilibrio e cadde nel fossato sottostante con tutto il peso della moto sopra. Ci sarebbe da ridere se nella rovinosa caduta non si fosse spezzato in malo modo la caviglia, per di più era finito a testa in giù in una cunetta fra il punto rialzato che aveva scelto come osservatorio e il sentiero confinale. Il dolore fortissimo proveniente dall’arto leso, il peso della moto, la posizione innaturale che gli faceva vedere il mondo all’incontrario e la configurazione del terreno, gli impedivano di effettuare il pur minimo movimento. Giaceva ormai da un po’ in questo stato, quando sentì nitido il caratteristico rumore degli zoccoli di un cavallo: nulla di strano, Genesio si trovava non molto distante dal noto centro ippico posto in territorio elvetico quasi sulla linea di confine; era, infatti, un cavaliere svizzero che, vista la bella giornata, aveva lasciato il maneggio per una passeggiata nel bosco.
Lo svizzero percepì i lamenti di Genesio, lo vide rannicchiato sotto la moto, fermò immediatamente il cavallo e ancor più velocemente, decise cosa fare, anzi lo esternò subito con un sonoro “Ma va a da via ‘l c…” con il suono dell’ultima vocale accentata che echeggiò nella valletta: i fatti seguirono le parole e il cavaliere si allontanò senza alcun indugio. A questo punto, premesso che se lo sventurato fosse stato svizzero il soccorso ci sarebbe stato di sicuro, conviene cercare di dare una spiegazione a chi giudica ingiustificabile questo comportamento, a chi si chiede perché non ci sia stato un intervento da buon samaritano da parte di chi montava l’incolpevole cavallo. Noi gente di confine, che con gli svizzeri conviviamo da cinque secoli, sappiamo benissimo qual è l’atteggiamento dei confederati quando c’è un italiano in difficoltà: l’aiuto non è un atto dovuto ma dipende da valutazioni che possono essere più o meno irrazionali, legate a tante variabili incomprensibili, talmente incomprensibili che chi scrive ritiene una perdita di tempo cercare di capirle. Il cavaliere del nostro racconto per chissà quale ragionamento (ragionamento?) stabilì che il ferito non doveva essere aiutato e che i suoi cavoli avrebbe dovuto risolverli da solo. Forse la spiegazione di tutto ciò sta nel fatto che noi comaschi e i ticinesi abbiamo lo stesso genotipo, stessi cognomi stesso dialetto anche se con diversa cadenza, ma il fenotipo, vale a dire le modifiche provocate dall’ambiente ed in questo caso il preponderante influsso svizzero - tedesco sul Cantone di lingua italiana, ha influito in modo decisivo sui ticinesi tanto che hanno verso di noi un rapporto di attrazione e repulsione che poi porta a strani episodi come quello appena descritto.
E Genesio? Bè il Genesio non era in condizione di filosofeggiare sulla mancata assistenza ma inconsciamente intuiva che non poteva illudersi di essere tolto dalla scomoda posizione; per questo si limitò a dire “Svizar”, più una constatazione che un’imprecazione.
Solo a tarda ora, quando ormai la notte era scesa con il suo freddo a tormentare il malcapitato, Genesio fu salvato dall’assideramento; e non dai suoi compagni, che se ne stavano tranquilli ad aspettarlo al bar e che furono gli ultimi a sapere dell’incidente, ma dalla Guardia di Finanza. Eh già, in quella grande partita a guardie e ladri che si combatteva sul confine in quegli anni, successe che le guardie aiutarono il ladro senza neanche comprendere chi veramente si trovassero a soccorrere. Recitava, infatti, il rapporto dei finanzieri che “… dovettero abbandonare la programmata vigilanza del territorio per la lotta al contrabbando al fine di correre in aiuto di un giovane ferito a causa della perdita del controllo della moto a cavallo della quale percorreva, per proprio diletto e con lucida incoscienza, un sentiero sterrato in località …”
Genesio portò baldanzosamente a spasso le proprie stampelle ed il gesso per un mese e a tutti spiegava che si era fatto male mentre era in testa e mancava un solo giro al traguardo, eh sì…

Genesio è, naturalmente, un nome di fantasia:
l’ho scelto in onore del laghèe Davide Van de
Sfroos Bernasconi




 

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 1 -
Gli anni settanta del secolo scorso sono ormai passati alla storia con la definizione di anni di piombo. Anni grigi, di odio e sovente il piombo lasciava una lunga striscia rossa di sangue. L’ambiente politico era talmente deteriorato che la civile contrapposizione di idee non era più praticata e l’avversario era solo un nemico con cui il dialogo era improponibile anzi, non si tentava nemmeno, la politica era lotta totale, feroce. Questa atmosfera particolare si avvertiva specialmente nelle scuole, dove l’esuberanza giovanile si sposava con la voglia di cambiare tutto e subito, e tanti pensavano di sovvertire lo Stato ritenuto non democratico: in quel clima, difficile da spiegare ora specialmente a chi non l’ha vissuto, le parole di odio lasciarono spazio sempre più spesso alle armi: dapprima quelle improprie, per esempio la tenaglia inglese brandita minacciosamente nei cortei e poi usata sulle teste degli avversari, ed infine, in una tragica spirale inarrestabile, il piombo entrò nella contesa politica.
In quel periodo giocavo a pallone nel Valmorea, campionato Juniores, le partite si svolgevano su un campo con un manto erboso molto bello e che ora, purtroppo, non esiste più perché fu usato per la costruzione delle scuole elementari del paese. Come spogliatoi utilizzavamo quelli dell’adiacente scuola media e con me, fra gli altri calciatori, si trovava un giovane di Carimate, Luigi Mascagni. Anche lui frequentava il Liceo scientifico di Como, ma in una sezione diversa dalla mia e solo il fatto di giocare nella stessa squadra di calcio permise la reciproca conoscenza. Sì, perché allora le idee politiche determinavano anche le amicizie e Mascagni era un rosso, sempre in prima fila nel volantinaggio all’entrata della scuola mentre io non avevo ancora idee ben definite ma una cosa avevo chiara in testa ed era un anticomunismo viscerale, anticomunismo che era aumentato esponenzialmente a causa del libro "Arcipelago Gulag" di Solzhenicyn che proprio in quei giorni bevevo (si può bere un libro? Certamente, anzi un libro come quello te lo spari direttamente nelle vene e ti si imprime per sempre nel cervello).
Quello che la politica divideva il calcio riuniva: entrambi sapevamo di essere in campi opposti, ma un patto tacito faceva sì che le divisioni rimanessero fuori degli spogliatoi e fu una fortuna perché Luigi era una gran brava persona, generosa ed ironica. Personalità che si intravedeva anche nel modo di giocare, era infatti un centrocampista alla Oriali, per fare un esempio che i cultori del calcio possono immediatamente capire, in altre parole un laborioso lavoratore al servizio della squadra, tutto cuore e polmoni, correttissimo in uno sport in cui l’unica cosa che conta è vincere. Mentre io ero un eclettico che ricopriva tutti i ruoli tranne il portiere, come adesso nella vita faccio più o meno bene tante cose, lui era un metodico, sempre quell’onesto faticare a centrocampo senza sprazzi ma di cui capivi l’importanza quelle rare volte in cui era assente. E poi aveva la battuta pronta, possedeva l’arte innata di prendersi in giro che fa superare i momenti di difficoltà come quella volta che perdemmo dopo avere sbagliato due rigori ed uno dei due errori sciagurati l’avevo commesso io tirando sopra la traversa: Luigi mi aveva consolato a lungo (un rigore sbagliato è come perdere a scacchi, una sconfitta assoluta, solo tua, dove non puoi invocare nessuna scusante).
Anche quel campionato finì e le nostre strade si divisero, terminò anche il Liceo e ci iscrivemmo all’Università degli Studi di Milano, in corsi diversi ma ogni tanto ci vedevamo perché la sua facoltà era adiacente alla mia. Lo vedevo con il suo eskimo che allora non era solo un soprabito ma anche il segno di una appartenenza allo schieramento di sinistra e ci scambiavamo sempre due parole in amicizia, evitando con accuratezza di parlare di argomenti politici. Incontri che si fecero sempre più rari con il passare degli anni finché non ebbi più occasioni di incontrarlo.
Fu così che i primi di luglio del 1979 lessi con raccapriccio misto a stupore che il cadavere di uno studente, Luigi Mascagni, era stato rinvenuto al Parco Lambro di Milano. Era stata una vera e propria esecuzione, colpito alla schiena con un’arma da fuoco. Non si seppe mai chi fu il colpevole, se qualcuno dell’estrema destra o se fu vittima di una faida fra i tanti gruppuscoli della sinistra extraparlamentare molti dei quali, come le Brigate Rosse e Prima Linea, avevano scelto da tempo la lotta armata. I giornali ne parlarono per un po’, ipotizzando vari scenari, e poi tutto scivolò lentamente nell’oblio, alla fine rimase uno dei tanti delitti irrisolti di quel periodo plumbeo.
Ma da quell’oblio ogni tanto lo faccio uscire con i miei pensieri: quando penso a quel periodo giovanile della mia esistenza quello che mi ricordo, e di cui ho nostalgia, sono l’odore dell’erba del campo di calcio appena tagliata, gli spogliatoi con la loro aria umida di sudore ed il viso di Luigi Mascagni, sempre serio ma con gli occhi sorridenti, mentre indossa quella inverosimile maglia verde con striscia diagonale rossa che era la nostra casacca.
Aveva due passioni Luigi Mascagni: una, il calcio, gli ha regalato intensi sprazzi di felicità condivisi con i suoi compagni di squadra, l’altra, la politica intrisa di forsennate ideologie, gli ha procurato una morte prematura.
Ronago lì 11/09/2000

sabato 3 dicembre 2011


STORIE DI CONFINE - 1 –

 Anno terribile il 1944 anche nei nostri paesi seppur non direttamente interessati da eventi bellici, la guerra vera e propria era ancora lontana, sulla Linea Gotica. Certo, poteva capitare che qualche aereo alleato di ritorno da Milano scaricasse le bombe residue come accadde al Ronchetto di Ronago o addirittura in Svizzera, ma non era questo il vero problema per la gente.
Era la fame il vero assillo: noi, cresciuti in una società opulenta, con il frigorifero pronto ad esaudire ogni piccolo stimolo, non possiamo comprendere che cosa vuol dire avere fame, lo stomaco che ti morde e ti attanaglia. Guardate le foto di quel periodo: uomini e donne di una magrezza impressionante, volti scavati e occhi persi nelle orbite.
La fame però aguzzava l’ingegno e nelle nostre terre di confine si era trovato un sistema per poter mettere qualcosa sotto i denti. La soluzione, semplice e geniale, era questa: si scendeva fino a Novara o ancor più giù a Vigevano e si comprava il riso, non pensiate che fosse roba di poco conto, non era una scampagnata, viaggi in treno avventurosi, sempre possibili i bombardamenti od i rastrellamenti dei Tedeschi. Una volta comprato il riso si tornava nella nostra provincia e, qui c’era l’intuizione non priva di estro, si rivendeva una parte del riso agli Svizzeri (paese neutrale ma circondato completamente dalla guerra, pieno come un uovo di rifugiati e dove il cibo scarseggiava forse più che in Italia) quindi, con il ricavato della vendita, si poteva ritornare a comprarne dell’altro concludendo così il circolo virtuoso.
Certo, portare il riso in Svizzera non era proprio una passeggiata, le frontiere erano chiuse e presidiate, bisognava passare attraverso i sentieri dei boschi, sentieri percorsi anche da chi cercava rifugio in Svizzera, evitare i Tedeschi ed i repubblichini con il rischio, se si fosse stati presi, di perdere di sicuro il riso e, se fosse andata proprio male, di finire deportati a lavorare in Germania.
In uno di quei giorni del 1944 Vittore Fontana aveva lasciato la sua casa di Lampona, frazione di Ronago, ed aveva preso il sentiero che, dopo il Dussel, saliva la collina per poi continuare nella stradina per Somazzo, sentiero che avrebbe abbandonato nei pressi della Pauzella dove sarebbe entrato in Svizzera con il suo bel sacco di riso.
Aveva trentanove anni ma sapeva cosa fosse la sofferenza: la moglie era morta due anni prima rapita nel fiore degli anni da uno dei tanti mali del secolo ed era rimasto vedovo e con una figlia. Era da poco tornato da Torino, dove faceva il muratore, perché era troppo rischioso vivere in una città sottoposta a continui bombardamenti. Il contrabbando di riso per lui era semplicemente il modo per poter sopravvivere: in attesa che la guerra finisse bisognava pure procurarsi il cibo necessario ed i soldi per acquistarlo. Intendiamoci, non era mosso da uno scopo di lucro, non era un’attività fatta per arricchirsi ma imposta dalle durissime condizioni di vita di quel periodo.
Il cammino di avvicinamento al confine avvenne con la massima discrezione, favorito anche dalla perfetta conoscenza dei luoghi e degli spostamenti dei Tedeschi che, fra l’altro, erano tutti anziani perché quelli giovani erano al fronte, non certo in una zona di retrovia.
Giunto il momento di varcare la rete confinaria, l’attenzione del Fontana divenne massima perché qui ogni errore sarebbe stato pagato duramente: fiutata l’aria e non vedendo nessun pericolo, con un balzo rapidissimo si trovò in territorio elvetico; fece un respiro di sollievo, convinto che anche stavolta fosse andata bene, sarebbe bastato scendere a Novazzano e vendere il riso al miglior offerente, quando un grido gutturale lo gelò improvvisamente e lo bloccò. Pensò subito ai Tedeschi ma solo per un attimo, perché quella voce non proveniva dall’Italia dietro le sue spalle incurvate sotto il peso del riso ma davanti a lui: era la guardia svizzera. Ebbe solo il tempo di pensare "che sfortuna, non è un Ticinese con cui ci si può intendere subito parlando in dialetto, con questo qui dovrò spiegarmi a gesti", che lo Svizzero sparò.
Si disse dopo in paese che occasionalmente l’esercito Svizzero affiancava nella vigilanza le guardie di confine ticinesi e quindi poteva capitare che la sorveglianza fosse effettuata da Svizzeri di lingua tedesca che non conoscevano l’italiano: probabilmente voleva essere uno sparo di avvertimento ma la tragica realtà fu che Vittore Fontana era già morto prima di cadere coperto dal riso tinto dal suo sangue.
Anno orribile il 1944! Come in un quadro di Bruegel la Morte girava con la sua falce sempre lucida e raccoglieva cadaveri in ogni luogo ed in ogni modo anche il più impensato. Succedeva pure questo nel macabro 1944, morire per mano di chi doveva essere neutrale, di chi avrebbe dovuto essere neutrale.


Solo a guerra finita le spoglie mortali di Vittore Fontana
poterono rientrare in Italia e raggiungere il cimitero di
Ronago, dove ora riposano.