domenica 11 dicembre 2011

SPORTIVI - 2 –

SPORTIVI - 2 –
 Per favore, non prendetevela con i ciclisti quando li incrociate, con la vostra auto, lungo le strade: non imprecate se occupano la corsia, magari in gruppi più o meno numerosi impedendovi di andare più veloci e, quando finalmente potrete superarli, fatelo con la massima attenzione e senza arrecare alcun danno. Agendo così non solo vi comporterete da perfetti autisti ma soprattutto non interromperete lo scopo vero dell’andare in bicicletta: il raggiungimento della felicità. Vi stupite della mia affermazione? Certo, capisco il vostro sbalordimento e allora cercherò di spiegarvi come la felicità sia la logica conseguenza dell’uso della bici, raccontandovi la storia di un normale ciclista della collina. Innanzi tutto va detto che l’età media di questi sportivi è elevata, si vedono sfrecciare anche baldi settantenni ed oltre. Il nostro esempio, con i suoi quarantacinque anni, poteva giustamente considerarsi un giovane corridore. Si chiamava Bartolomeo Fasola ed aveva incominciato a pedalare relativamente tardi intorno ai quaranta anni; non che il passaggio negli "anta" gli avesse stimolato gli ardori sportivi come se inconsciamente temesse l’avanzare dell’età e cercasse di allontanare il graduale ma inevitabile deperimento fisico. Tutt’altro. Il fatto è che, sposatosi a venticinque anni, il lavoro e la famiglia avevano occupato tutto il tempo disponibile tanto da costringerlo ad abbandonare qualsiasi attività fisica. Per di più aveva un forte appetito, era un tale buongustaio da non disdegnare la preparazione di piatti raffinati; quindi potete capire benissimo che in quindici anni di matrimonio il Meo, così lo chiamavano a Ronago, aumentò il suo peso mediamente di due chili all’anno tanto da sfiorare il quintale. Non si preoccupava di assomigliare sempre di più ad un plantigrado, l’estetica non faceva parte dei suoi orizzonti, ma l'organismo non accettava più il surplus calorico ed il nostro cominciò ad accusare dapprima un senso di peso allo stomaco, come se avesse sempre qualcosa da digerire e poi avvertì, sempre più insistente, un dolore cupo, persistente al fianco destro dove le costole lasciavano spazio, quasi intimorite, alla pancia debordante. Dapprima sopportò pazientemente il dolore però nel giro di pochi giorni lo stato di malessere si aggravò quando si aggiunse l’insonnia o meglio uno stato di sopore intervallato da risvegli nel cuore della notte, con il fianco destro pungente, che gli rendevano insopportabili il silenzio ed il buio. Decise di andare dal medico il quale gli prescrisse subito gli esami del sangue; questi erano tutti nella norma ad eccezione delle transaminasi. Il dottore gli spiegò che quelle due particolari transaminasi con i valori notevolmente sballati indicavano chiaramente come la funzionalità epatica fosse compromessa e richiese un’ecografia. Il medico addetto all’analisi era un anziano professionista che alternava allarmanti silenzi con frasi in un dialetto tagliente di un cinismo esasperato. Alla fine il responso dell’esame ecografico fu: "Caru sciur al gà un fegato come un patè d’oca, anzi, per la precisiun, un vero foie gras cume disann i frances". Stordito dall’esito dell’esame in quanto confermava il cattivo funzionamento di un organo così importante, rimuginando come consolazione che il suo fegato non era all’altezza del cervello, tornò dal suo medico di base il quale lo tranquillizzò dicendogli di non agitarsi perché il fegato ha delle capacità incredibili di recupero. Certo doveva aiutare la rigenerazione epatica cambiando dieta, innanzitutto diminuendo le enormi quantità ingerite (il medico conosceva il suo pollo anche perché aveva partecipato anche lui a memorabili mangiate con il Meo) e poi abbandonare la vita del perfetto sedentario e trovarsi qualche sport da praticare così da poter più facilmente consumare i suoi considerevoli depositi di grasso. Il Fasola era un tipo che scansava volentieri i medici, però quando ne aveva bisogno ascoltava con giudizio i loro consigli. Cominciò immediatamente a diminuire il cibo e a guardarsi intorno per vedere quale attività fisica praticare. Da giovane aveva giocato a pallone ma scartò subito questa possibilità perché prevedeva il contatto fisico con l’avversario: troppi i rischi di infortuni. Gli consigliarono la palestra ma trovava alienante ripetere continuamente gli stessi movimenti per di più in luoghi chiusi, no, per lui lo sport era solo quello da praticare all’aperto, con qualsiasi tempo ma all’aperto. Infine scelse la bicicletta. Il suo amico Ivano, un pollivendolo di Lurate, gli prestò una mountain bike e così incominciò a sbuffare pigiando sui pedali. Certo l’inizio fu difficile, bastava un cavalcavia per mandarlo fuori giri, la prima volta che si avventurò fino ad Olgiate il ritorno a casa si trasformò in una tormentata ritirata con i muscoli delle gambe dolenti, il respiro affannoso e la bocca riarsa. Non si demoralizzò, capì che doveva centellinare gli sforzi, ogni giorno qualche chilometro in più. Comprese anche che la mountain bike non faceva per lui, troppo pesante e con quelle ruote dentate non adatta all’asfalto da lui preferito perché liscio e scorrevole mentre non gli piaceva pedalare sulle strade sterrate, piene di buche e sassi. Ed allora tirò fuori dal garage la vecchia Legnano gialla, la bici di quando era un ragazzo, la portò dal Valli, il meccanico di Gironico, il quale in un batter d’occhio la rimise in sesto. Con la bici da corsa era tutto un altro divertimento e con piacevole stupore si accorse di aspettare con trepidazione il pomeriggio inoltrato quando poteva uscire per una sgambata. I chilometri aumentarono, le sue gambe sopportavano sforzi sempre maggiori, ormai usciva tre volte alla settimana e con percorsi gradualmente più impegnativi. Dopo qualche mese si accorse che la sua Legnano era purtroppo una bici superata: i freni non erano sufficienti quando effettuava discese ripide, il cambio non era preciso e lo abbandonava proprio quando, sotto il massimo sforzo in salita, non riusciva a passare alla corona posteriore più grande. Tornò dal Valli, espose il suo problema ed il meccanico disse un laconico "ghe pensi mi" e si mise subito all’opera prendendogli le misure. Come un sarto il Valli usò il metro e gli controllò la lunghezza delle mani, dei piedi ed il cavallo perché la bicicletta doveva essere fatta a pennello secondo il fisico del Fasola il quale, perplesso, assisteva senza proferire parola alle manovre del meccanico. Poi scelse il colore, uno splendido azzurro, il cambio e aspettò pazientemente una decina di giorni. La bici era una Rossin, stupenda nella sua lucentezza, così leggera ma senza essere fragile, anzi, aveva un’aria robusta. Quando finalmente la inforcò capì l’importanza delle misurazioni, si sentiva veramente bene in sella ed il pedalare era armonioso, le ginocchia si piegavano e si allungavano come dei veri stantuffi, la bici fendeva l’aria e scivolava impeccabile sull’asfalto. Nella vecchia Legnano gli attacchi ai pedali erano ancora i superati laccetti; ora invece aveva gli attacchi Luer Look, come quelli degli sci, e questi meccanismi accentuavano enormemente l’unione fra il corpo del ciclista e la bici. Il Meo si sentiva veramente un corpo unico con la bici, il manubrio era un prolungamento delle mani ed i suoi piedi finivano nei pedali, le articolazioni meccaniche che lo legavano alla vera fine del suo corpo: le ruote. Quando pedalava sulle strade assolate, specialmente nei tratti di lunghe salite, dove lo sforzo muscolare non ti impedisce di vagare con la mente, meditava che gli Aztechi, quando videro per la prima volta gli spagnoli del conquistadores Hernan Cortes in groppa ai cavalli e, non conoscendo il nobile equino, pensarono atterriti che uomo e cavallo fossero la stessa persona, erano in anticipo di qualche secolo sui tempi. Il vero centauro non era dato dall’unione dell’uomo con il cavallo ma, grazie alla tecnologia, da uomo e bicicletta. Nello stesso modo capì il futurismo, l’inno alla velocità di Marinetti, i quadri di Giacomo Balla. Perché il ciclismo è veramente un inno alla tecnologia: prendiamo i pantaloncini e la maglietta realizzati in tessuto leggerissimo e speciale che permette la traspirazione, cosicché il sudore non si appiccica alla pelle, e contemporaneamente ha una funzione di barriera contro l’aria; il casco aerodinamico e gli occhiali danno un aspetto spaziale al ciclista, le bici fatte con materiali sempre più leggeri e resistenti, con freni potenti e cambi di notevole precisione. E poi l’innovazione fondamentale del contachilometri: chiamarlo così è riduttivo, perché questo aggeggio grande come un orologio e posto sul manubrio, indica anche la velocità istantanea, quella oraria, i tempi parziali e può avere funzioni particolari come l’altimetro. Così il Meo sapeva, ad ogni uscita, la velocità oraria: ormai non si trattava più di andare in bici per dimagrire perché egli era in lotta con se stesso e intuiva benissimo di condurre una battaglia continua, agonistica, per migliorare le proprie prestazioni. Un’ulteriore spinta verso l’agonismo fu la scoperta del cardiofrequenzimetro: in realtà questo strumento tecnologico costituito da una fascia elastica con gli elettrodi da indossare sotto la maglietta a contatto del torace e da un orologio, da porre sul manubrio vicino al contachilometri, indicante la frequenza dei battiti del cuore al minuto, gli fu consigliato da un medico sportivo, il Testa. Il professionista gli spiegò l’importanza di sapere la propria frequenza cardiaca per non superare la soglia aerobica oltre la quale l’organismo, andando in anaerobiosi, accumula acido lattico nei muscoli e consuma zuccheri anziché grassi. Come conseguenza ti trovi dopo una cavalcata di cento chilometri con i muscoli indolenziti per qualche giorno e nessun riscontro positivo sulla bilancia. Meo si accorse subito dei benefici del frequenzimetro, infatti salì sul Monte Generoso senza mai oltrepassare la propria soglia aerobica di 160 battiti al minuto e, diversamente dalla scalata della settimana precedente sul monte che domina il Mendrisiotto, impiegò un minuto in meno di tempo e soprattutto dormì benissimo quella notte senza dolori fastidiosi nelle gambe. Nei giorni feriali il nostro Meo rientrava alle cinque dal lavoro e cominciava subito il rito della vestizione: calzoncini, canottiera traspirante, maglietta wind stopper, calzini, scarpette, occhiali, casco e guanti traforati da ciclisti. Poi si metteva in bocca qualche goccia di propoli per proteggere la gola e prendeva la bici; un veloce controllo della pressione delle gomme e subito la inforcava dopo aver riempito d’acqua la borraccia. Di solito si dirigeva verso la Svizzera perché lì c’era meno traffico, le strade erano ben asfaltate ed i percorsi erano vari, dai più semplici sul lago di Lugano ai più impegnativi sulle montagne ticinesi. I primi chilometri, fino a Mendrisio, erano propedeutici, servivano a riscaldare i muscoli e la bici, dopodiché cominciava il vero divertimento. Cercherò di spiegarlo a chi, sfortunatamente, non ha mai provato questa ebbrezza. Iniziamo dalla parte meccanica del corpo del moderno centauro: la bici fende l’aria con eccezionale armonia, le ruote girano silenziose emettendo un lievissimo fruscio, quasi come il ronzio di un’ape, la catena, tesissima, scivola sui denti delle corone, il manubrio accoglie sia le mani del ciclista che il contachilometri ed il cardiofrequenzimetro. Le gambe mulinano sui pedali con una frequenza data dal tipo di cambio scelto, il corpo dell’atleta si incurva fra sella e manubrio cercando di essere il più aerodinamico possibile, gli occhi fissano alternativamente la strada, il contachilometri ed il cardiofrequenzimetro, la bocca, dapprima chiusa, si apre sotto lo sforzo ed il respiro si fa sempre più intenso. Improvvisamente ti senti in sintonia con la natura che ti circonda, guardi il paesaggio e ti sembra di essere in posti meravigliosi, l’attrito del vento è una dolce musica che ti vortica nelle orecchie, i tuoi muscoli sono tesi sotto lo sforzo ed il fatto che il tuo corpo reagisca agli stimoli è già per te motivo di soddisfazione come chiunque abbia praticato un qualsiasi sport sicuramente comprende. Senza neanche accorgerti, soprattutto non avendola cercata, hai raggiunto la felicità, una sensazione di benessere e di armonia fra di te, la bici e tutto ciò che ti circonda. Ed il bello è poter raggiungere la felicità da solo od in compagnia, meglio ancora se la compagnia è numerosa: il gruppo. Meo si ricordava ancora la prima volta che incontrò un gruppo. Si trovava fra Porto Ceresio e Ponte Tresa e pedalava rilassato guardando i pescatori che, con i ciclisti, sono gli unici frequentatori del lago nelle prime ore del mattino della domenica, quando sentì alle spalle un rumore come quello di uno sciame di api. Non fece neanche in tempo a voltarsi perché fu subito affiancato da due ciclisti che pedalavano con notevole impegno. Riuscì soltanto a guardargli le gambe per capire che tipo di ciclisti erano, i muscoli scolpiti e la mancanza di grasso indicano il corridore allenato, ed i due lo avevano già staccato ma fu subito affiancato da altri velocipedi che tallonavano i primi ed aspettavano per dargli il cambio. Era un folto gruppo di almeno una cinquantina di unità ed il ronzio di api era determinato proprio dal movimento di tutte quelle ruote. Meo, subito affascinato da quel turbinio di catene e sudori, cercò di resistere alla velocità del gruppo ma scivolava sempre più in fondo fino a quando fu raggiunto da un ciclista anziano che pedalava con eleganza. Doveva essere il capo branco perché ad un certo punto disse rivolto ai corridori di testa "Alura semm in prucesiun? Su bagai, su"; immediatamente chi tirava in quel momento aumentò la velocità sopra i quaranta e Meo, era ancora il primo anno di bicicletta, non poteva sostenere simili ritmi, perciò perse contatto e li vide allontanarsi fino a scomparire all’orizzonte. Questo primo incontro fu di grande stimolo per il nostro: si pose come obiettivo quello di poter resistere alle alte velocità dei vari gruppi che solcavano la domenica il lago di Lugano. Si autonominò con ironia "la zecca del Ceresio" perché la domenica ciondolava sulle strade del lago e, appena passava un plotone, zac, si metteva subito in coda a succhiare le ruote. Non pensiate che questo sia un atteggiamento da maramaldo e malvisto dagli altri corridori: qui non si tratta di una gara in cui uno limita gli sforzi per poi poter vincere una volta giunti al traguardo, no, qui ognuno dà quello che può, quindi ti metti in fondo e, se ce la fai, non ti stacchi al primo strappo. Se invece, oltre a resistere, hai anche qualche residuo di forze, cominci a tirare anche tu perché siamo tutti ciclisti quindi fratelli con lo stesso scopo, il raggiungimento della felicità. Cosicché Meo riservava l’uscita domenicale alla felicità condivisa con gli altri fanatici mentre le due uscite infrasettimanali, dove la possibilità di trovare adepti della stessa fede era inferiore, al raggiungimento della felicità individuale. Come in questo mercoledì di primavera inoltrata, temperatura ideale sui 22 gradi e poca umidità, superata la stazione di Mendrisio si trovò al bivio per la valle di Muggio: andare a destra voleva dire un percorso impegnativo con continui saliscendi, tirare dritto significava dirigersi verso il lago di Lugano, quindi strada pianeggiante dove sviluppare rapporti lunghi. Quel giorno era partito con l’intenzione di pedalare attraverso la Val di Muggio però, all’ultimo momento, cambiò idea e scelse di scendere verso il lago. Percorse a velocità sostenuta il rettilineo dove c’era l’arrivo dei mondiali del 1971 (quello dove Merckx, in volata, batté Gimondi) ed iniziò la discesa verso Capolago quando udì il segnale acustico di una Croce Rossa. A questo punto serve una piccola spiegazione: in Italia, quando si sente la sirena, chi si trova al volante di un’auto dapprima individua la provenienza del suono, cercando di capire la direzione del mezzo di soccorso, poi, rallentando, si sposta a destra per lasciar passare chi reclama precedenza e, solo se serve, si ferma a lato della strada. In Svizzera non è così: probabilmente a causa dell’influsso teutonico, il conducente, appena sente il suono stridulo della Croce Rossa, indipendentemente da dove esso provenga se di fronte od alle spalle, si sposta a destra e si ferma. Fu così che Meo, il quale sfortunatamente aveva appena finito di bere e stava deponendo la borraccia nella sua custodia sul telaio e quindi in quel preciso momento aveva solo una mano sul manubrio, si vide la strada bloccata da un’auto con targa svizzera che aveva accostato a destra, arrestandosi di colpo. Riuscì con un guizzo istintivo ad evitare lo scontro con l’auto, tuttavia il brusco movimento lo fece uscire di strada. Le strade svizzere, dove non esiste il marciapiede, hanno quasi tutte un cordolo di pietra che sopravanza di qualche centimetro l’asfalto; Meo lo toccò con le ruote bloccate dalla disperata frenata. Il cordolo funzionò come un trampolino, fermando la bici e lanciando il povero Bartolomeo contro il muro che, purtroppo, in quel punto affiancava la strada . L’impatto fu tremendo.
A volte succede. Ti impegni, cerchi di trovare stimoli che ti rendano la vita più allegra, arrivi, magari involontariamente, a compiere azioni che ti procurano una felicità immensa, tenti di ripetere questi atti per continuare ad essere appagato e, invece, improvvisamente, ti ritrovi nell’Aldilà. Destino cinico e baro dice qualcuno: frase trita e ritrita ma malauguratamente vera per il povero Meo. Altro che corpo unico con la bici, ora lui si trovava sfracellato contro il muro e la Rossin era scivolata a qualche metro di distanza tutta accartocciata, tranne la ruota posteriore. Incredibilmente, quest’ultima girò ancora per qualche istante intorno al proprio perno; ecco, mi piace pensare che l’ultimo suono percepito da Bartolomeo Fasola sia stato quel leggero fruscio.

Nessun commento:

Posta un commento