sabato 17 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 5 –
Non sopporto il suono del telefono. Soprattutto non mi piace quello della mia camera da letto, quel trillo insistente e prolungato che mi manda subito in agitazione. Quest’odio è motivato perché troppe volte mi ha svegliato durante i turni di reperibilità; tu dormi e, all’improvviso, ti accorgi che sul comodino quell’infernale aggeggio manda da chissà quanto tempo il maledetto squillo ed allora le mani escono dalle coperte e abbrancano l’aria con l’intento di fermare prima possibile la tortura bitonale. Annaspi nel buio, finalmente riesci ad accendere l’abat-jour, localizzi il telefono e prendi la cornetta con mano tremante. Dalla bocca mi esce un “Pronto” strascicato mentre dall’altra parte del filo una voce dice: “Pronto, siamo i Carabinieri, c’è stata una rapina ed abbiamo bisogno di un suo intervento”. Io ribatto “Guardi che si sbaglia, io sono semplicemente un veterinario” ma lo dico sicuramente in un modo incomprensibile perché il milite non capisce e, con gentilezza, mi chiede di ripetere. Allora estraggo i piedi dalle lenzuola e mi siedo sulla sponda del letto, cerco l’orologio che ho fatto cadere quando agitavo le braccia nel buio alla ricerca del lume, lo trovo sul tappeto, guardo le ore: maledizione, indica le due. Nel frattempo ho recuperato un po’ di coordinamento cerebrale e posso così dire con una voce sufficientemente chiara: “Mi scusi, ma cosa c’entro io in questa faccenda?” “Abbiamo proprio bisogno di lei - dice il carabiniere - perché a seguito della rapina un cane è rimasto seriamente ferito. Per favore si rechi al bar ***: si trova sulla Canturina fra Camerlata ed Albate. Lì troverà alcuni miei colleghi che le spiegheranno tutto”. Quando ti svegliano nel cuore della notte istintivamente cerchi di evitare di uscire, è normale che tu voglia rimanere nel letto, al caldo. Però è evidente la gravità dell’accaduto e, ormai rassegnato alla levataccia, dico a mia moglie “quando arrivo, arrivo” che è la frase da me usata quando è impossibile calcolare la durata dell’intervento. Mi dirigo verso il bagno. In queste occasioni il tragitto camera da letto - bagno è il percorso delle recriminazioni e dell’autocompatimento: penso “Ma quanto sono sfortunato, proprio a me doveva capitare un simile garbuglio, proprio in questo giorno dovevano fare la rapina, ingrati, quando io sono di turno”. Apro il rubinetto, immergo le mani nell’acqua corrente e mi sfrego energicamente il viso; finalmente mi sveglio completamente e raggiungo una certa lucidità. Nel frattempo dimentico i pensieri negativi e riacquisto il senso del dovere, dopotutto la reperibilità è detta anche pronta disponibilità ed io devo, con veloce sollecitudine, risolvere i problemi: è un compito d’istituto, perdinci. Il fatto che i guai ti giungano all’improvviso fra capo e collo nel cuore della notte fa parte dello sporco gioco di questo mondo difficile, quindi bando alle ciance ed affronta la questione. Mi vesto velocemente, scendo le scale con passi felpati ed esco. Fuori della porta i miei tre gatti mi guardano con aria sorpresa, rimanendo fermi, non mi seguono scodinzolando fra le gambe come fanno tutte le mattine aspettando la solita scatoletta di carne. Per un istante, le luci della mia auto illuminano i loro occhi luccicanti. Le strade sono naturalmente deserte in questa notte fra il 23 ed il 24 di maggio del 1993; è la notte fra la domenica ed il lunedì, meglio così, non dovrei incontrare gente al ritorno dalle discoteche che guida in modo spericolato. In un attimo attraverso Uggiate, per forza, sono strade che ho divorato chissà quante volte, potrei percorrerle ad occhi chiusi; nondimeno mi sembrano diverse, così vuote e silenziose. Su di me l’auto ha uno strano effetto, stimola fortemente i pensieri: usando un linguaggio rubato al mondo dell’informatica si può dire che l’autovettura alla quale mi collego allacciando la cintura di sicurezza ed impugnando il volante, mi fa da hardware e permette al mio software di elaborare ragionamenti su ragionamenti. Qualche volta l’intensità di quest’attività cerebrale è tale che mi trovo a percorrere itinerari che non avrei dovuto fare, per esempio devo svoltare a destra ma proseguo dritto, perché sono talmente concentrato che mi dimentico lo scopo del viaggio. Il software va in corto circuito e non controlla più l’hardware. Non è il caso delle uscite in reperibilità perché il senso di responsabilità funziona come deterrente impedendomi di sgarrare. E poi, generalmente, di quel logorio mentale nulla rimane perché dimentico quasi tutto quando mi stacco dal volante. Non fu così quella notte perché, forse per l’eccezionalità della chiamata (una rapina!), mi ricordai gli elaborati pensieri passatimi per la testa. Fu quando, scendendo da Montano, dovetti decidere quale strada prendere per arrivare a Camerlata, la Varesina o la Via Pasquale Paoli. Scelgo la Via Paoli e subito rifletto “Che strano, intitolare la principale strada di accesso a Como ad un còrso che lottò strenuamente per liberare la sua isola sperduta nel Mediterraneo dai genovesi e cosa ottenne? I genovesi vendettero la Corsica ai francesi. Cosa c’entra con noi comaschi il Pasquale Paoli? Per di più l’anno della vendita fu il 1768, non a caso l’anno prima della nascita di Napoleone Bonaparte. Interpretando un po’ liberamente la storia si può affermare che una delle conseguenze, oh non voluta certo, delle lotte di Pasquale Paoli fu quella di regalare un Napoleone ai transalpini. E a Como, probabilmente unica città al mondo, la via principale di accesso alla città da Sud si chiama Via Paoli e continua con Via Napoleona e chissà se chi ha assegnato i nomi alle due importanti strade avesse conoscenza di questo legame. A me poi sembra strano dedicare una via a Napoleone: cosa credete che in Francia ci sia una via Giulio Cesare? Ma per favore, solo in Italia si può intitolare una via ad uno che, con la scusa di portarci la libertà l’uguaglianza e la fraternità, ha trattato l’Italia come terra di scambi, dando agli austriaci la Repubblica di Venezia per avere la Lombardia, ma soprattutto come preda, rubandoci molte delle nostre opere d’arte. Capisco che quando ci sono le guerre non si va per il sottile, il bene supremo della propria Patria serve a coprire le ruberie e tutte le mascalzonate, ma ricordare con una via quel giacobino in lotta con tutte le monarchie del continente per diventare a sua volta imperatore mi sembra esagerato se non da autolesionisti”. Intanto, tra uno sragionamento e l’altro, sbuco sulla Canturina e trovo senza fatica il bar, il lampeggiante dell’auto dei Carabinieri mi suggerisce senza possibilità di dubbio dove devo andare. Accosto la mia Uno bianca vicino all’Alfa blu con la scritta sulla fiancata, scendo e mi avvicino al finestrino: all’interno dell’auto intravedo un giovane carabiniere assonnato e con il viso stravolto dalla fatica. Mi presento ed il militare m’indica la porta del bar dicendomi “Vada pure, all’interno c’è il Maresciallo”. Sono davanti all’uscio quando all’improvviso si spalanca la porta e la paura mi attanaglia perché ho l’impressione che il rapinatore stia uscendo dal locale, un individuo con i capelli lunghi e ricci, un giubbetto di pelle dal colore stinto e i jeans usurati. Per fortuna l’uomo parla e posso tirare un sospiro di sollievo perché dice: “Venga dottore, la stiamo aspettando”. E si che di spettacoli polizieschi ne ho visti, dovrei sapere che i tutori dell’ordine devono anche mimetizzarsi per combattere la feccia, anzi questo carabiniere mi ricorda un po’, nel gesticolare e nel vestire, Serpico il poliziotto italo – americano in lotta contro la mafia in un bel film di qualche anno fa. Intanto sono entrato nel bar, vedo il Maresciallo seduto ad un tavolino intento a scrivere su dei fogli; mi dirigo verso di lui e gli stringo la mano. Questi, finiti i convenevoli, mi dice: “Dotto’ ci siamo permessi di disturbarla perché solo un veterinario può dirci se o’animale è muorto”. Di colpo mi rendo conto che, oltre il tavolino e fino quel momento nascosto dal corpo del maresciallo, un pastore tedesco si trova disteso sul pavimento. Nello stesso tempo mi ricordo i romanzi gialli di Ed McBain, quelli della serie dell’87° distretto, dove quando c’era un morto la polizia non lo toccava finché non fosse arrivato il medico legale; il cadavere poteva avere un’ascia nella testa ma i poliziotti non lo sfioravano fino a quando il medico non lo avesse dichiarato ufficialmente defunto. Anche in Italia la procedura deve essere simile, il veterinario ufficiale sono io quindi tocca a me constatare il decesso del cane. Mi chino sull’animale, tocco prima la palpebra e poi la pupilla: nessun riflesso. Per sicurezza inserisco una mano fra le costole e naturalmente non sento alcun battito; il contatto mi indica che il corpo del cane si sta già raffreddando. “Maresciallo – dico – è sicuramente morto”. Il graduato annuisce muovendo lentamente la testa. E’ un uomo di mezza età, con una faccia piena e senza rughe, come spesso capita nelle persone con qualche chilo in più. Ma quello che mi colpisce in quel viso sono gli occhi, di un nero profondo, indagatori, molto attenti a ciò che accade nel locale. Nel contempo mi sembra di cogliere in quegli occhi un velo di tristezza, di malinconia: probabilmente hanno visto troppe cose sgradevoli per guardare gioiosamente il mondo. “Bene dotto’, molto bene” mi dice il Maresciallo con un tono di voce pacato “però ora dovrebbe dirci, a grandi linee, così, su due piedi, la causa probabile del decesso perché, vede, poi noi dovremo riferire al magistrato, sa qui c’è stata una rapina a mano armata e vorremmo anche sapere quanti colpi sono stati esplosi”. “Va bene – replico – però dovrebbe spiegarmi come si sono svolti i fatti”. “Giusto. Allora bisogna chiedere all’unico testimone, il barista” mi risponde e mi indica un uomo appoggiato al bancone. Questi, sentendosi nominato dal Maresciallo, si avvicina a noi due e ripete, penso per l’ennesima volta, il racconto. E’ un ometto con i capelli neri pettinati all’indietro, la barba mal rasata o, vista l’ora, in attesa della lama. Parla con una voce bassa e tremolante, capisco che la paura non gli è ancora passata, ovvio, ha appena visto un rapinatore armato, un ladro che ha anche sparato, e non in aria. Tutto è successo in pochi secondi al momento della chiusura del locale quando il proprietario stava sistemando i tavolini e, a parte il suo cane, non c’era più nessun avventore. All’improvviso si trovò di fronte un uomo che, puntandogli la pistola e strattonandolo con la mano libera, gli intimò di consegnare l’incasso. Il pastore tedesco, vedendo il proprio padrone aggredito da uno sconosciuto, reagì come l’istinto gli comandava: dapprima ringhiò e nell’istante successivo balzò addosso al rapinatore. A questo punto il barista interrompe il racconto e fissa il vuoto. Comprendo che il ricordo di quegli attimi tremendi sono dolorosi per lui e taccio mentre il Maresciallo, con gli occhi, mi fa capire di pazientare e di aspettare che l’uomo si riprenda. Nel frattempo, il carabiniere in borghese che mi ricorda Serpico sposta con metodo i tavolini, controlla dietro il bancone, senza tralasciare nulla, con un modo di fare molto deciso che contrasta con la pacatezza del Maresciallo. Certo, sta cercando eventuali bossoli ma sembra che la lotta ed il successo contro i mali del mondo dipendano da quella affannosa ricerca. Con un po’ di cinismo mi viene da pensare: “Chissà se gli occhi del giovane Serpico, oggi così scattanti e sgargianti, fra qualche anno diventeranno tristi come quelli del Maresciallo”. Intanto il barista ha ripreso, con fatica, a parlare: il rapinatore, appena intuì che la massa di pelo e denti gli stava venendo addosso, sparò. Un solo colpo, all’altezza del torace, e la povera bestia, senza nessun gemito, stramazzò sul pavimento. Velocemente il ladro si diresse verso il bancone, arraffò l’incasso e si dileguò lasciando solo il barista immobilizzato dallo shock. Ricevute le necessarie informazioni, ritorno vicino al cane: l’animale è steso sul fianco destro, incomincio ad esaminare il torace ma non riscontro nulla di anomalo. Prendo la zampa anteriore sinistra per ruotare il corpo e appena lo sollevo lascio una chiazza rossa sul pavimento mentre altro sangue semicoagulato cola dalla spalla destra, esce da un buco all’altezza dell’omero. Muovo la parte distale dell’arto e noto che la zampa si piega in modo innaturale a livello della spalla indicando chiaramente la frattura dell’omero. Un esame più approfondito del torace mi permette di trovare il piccolo foro di entrata del proiettile subito al di sopra dello sterno mentre l’uscita del piombo è avvenuta proprio in corrispondenza dell’osso fratturato a destra. Come poi confermerà l’autopsia eseguita il giorno seguente dai colleghi di Via Stazzi, il rapinatore aveva sparato una sola volta colpendo l’animale sul suo fianco sinistro ed il proiettile aveva attraversato tutta la cavità toracica trapassando il cuore per uscire infine dalla spalla destra. Intanto Serpico ha trovato un proiettile incuneatosi fra le piastrelle del muro proprio in punto compatibile, come traiettoria, con il luogo in cui si trovava il ladro al momento dello sparo. Riferisco tutto al Maresciallo il quale, esprimendo soddisfazione per il mio operato, mi ringrazia e mi congeda. Esco con sollievo dal locale, lascio quel luogo così carico di tensione e paura. Saluto il carabiniere assopito in macchina, salgo in auto e via a manetta verso la collina. Alle quattro sono finalmente a letto ma la notte non è ancora finita. Il fatto è che, vuoi per il brusco risveglio, vuoi per l’adrenalina che ho in circolo, e occorre tempo per smaltirla, so già dalle precedenti esperienze che ho bisogno di una trentina di minuti per sprofondare nel sonno. Minuti travagliati perché non riesco a liberarmi dai volti incontrati, il viso paziente del Maresciallo, quello fremente di Serpico, la faccia stravolta dalla fatica del carabiniere nell’auto e poi il volto del barista, il volto della paura. E probabilmente non c’era solo paura, c’era anche dolore, il dolore provocato dalla perdita del cane, il vero eroe della serata, la vittima dell’ancestrale istinto di difesa del proprio padrone. Infine aleggia nei miei pensieri anche il viso ignoto, la figura del rapinatore, chissà se aveva previsto la reazione grintosa del pastore tedesco. Certo se un cane ti attacca e tu hai una pistola la usi, ancora di più se hai già raggiunto la freddezza di sparare agli uomini. Nella mia mente passo, per analogia, dal rapinatore di Como a quell’altro che aveva un campo di azione continentale, a Napoleone, il ladro di nazioni. E mi dico, quest’uomo venuto dalla Corsica ha messo la parola fine alla millenaria storia della Repubblica di Venezia, d’accordo la Serenissima era già in liquefazione ma chi ha posto la parola fine sulla sua gloriosa storia è stato indiscutibilmente Napoleone. La Serenissima, ora ridotta al nome di un’autostrada. Venezia che mi rende triste ogni volta che la vedo perché guardando i suoi palazzi, le chiese, i campi ed i campielli immagino la grandezza del passato e la contrappongo al presente fatto solo di turismo. Povero Leone di Venezia. E pensando alla bellissima bandiera di Venezia, al Leone di San Marco, al leone alato e giallo su fondo arancione, all’incredibile fatto che le bandiere sono in verità due perché il leone tiene fra gli artigli il libro dell’Evangelista quando Venezia è in pace ma il Vangelo sparisce e compare la spada quando la Serenissima è in guerra, finalmente, mi addormento.


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