domenica 4 dicembre 2011

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 2 -

Aurelio Brigazzi era un dentista. Negli anni sessanta del secolo scorso non c’erano tanti odontoiatri come adesso dove gli studi dentistici spuntano come funghi e le ortodonzie dilagano in bocche di tutte le età, mentre allora i cavadenti, come venivano affettuosamente chiamati, erano solo due, il Brigazzi ed il suo concorrente Comolli. Entrambi avevano lo studio nel paese principale della collina, si dividevano equamente i clienti, ognuno correggeva gli errori dell’altro e andavano discretamente d’accordo; da veri gentiluomini superavano senza indugi le incomprensioni così frequenti nelle professioni mediche. Mentre il Comolli, abitando a Como, si vedeva poco al di fuori degli orari di ambulatorio, Aurelio Brigazzi risiedeva nei pressi del suo ambulatorio. Alto, sulla sessantina, con due baffi ben curati e dei modi da gran signore, aveva un carattere riservato che però non lo esentava da qualche innocente estrosità. Per esempio, non andava a messa nella sua parrocchia, ma sceglieva quella di un paese vicino, dove si recava regolarmente con la moglie ed i tre figli. Questo comportamento generava stupore nei parrocchiani dei due paesi: non che fosse insolito lo scambio di chiese fra gli osservanti, anzi si diceva che giù nella bassa, dove le colline dolcemente lasciavano posto alla pianura, ci fosse una migrazione da una parrocchia all’altra perché un prete diceva messa molto più velocemente dell’altro curato. Atteggiamento non certo da buon cristiano, forse più comprensibile considerando che certa gente abituata a vivere a cento all’ora trova tempo perso stare con le mani in mano e seduti ad ascoltare prediche; così, con il semplice scambio di chiesa, si salvava il precetto impiegando, o perdendo a secondo dei punti di vista, il minor tempo possibile. Non era certo questo il motivo che spingeva il Brigazzi a cambiare parrocchia, per di più il curato del paese vicino, Don Lino, non era certo un prete veloce, anzi, era un mistico che intervallava le frasi con lunghi silenzi meditativi durante i quali, con lo sguardo rivolto verso l’alto, gli occhi socchiusi e la bocca atteggiata ad un lieve sorriso, sembrava che dialogasse direttamente con Dio. Per di più il suo eloquio era fatto di ragionamenti più contorti che lineari non avendo per nulla l’arte oratoria, non era trascinante come molti suoi confratelli. Fu così che con vero sconcerto gli abituali frequentatori della funzione domenicale si accorsero che il Brigazzi prendeva gli appunti: quando Don Lino si avvicinava al microfono per iniziare la predica, il dentista traeva dalla tasca un piccolo quaderno e, diligentemente, scriveva. Cosa scrivesse non si seppe mai ma tale fu la sorpresa che subito il paese si divise in due contrapposte fazioni. La prima, composta dai cattolici praticanti, favorevolmente sorpresa dall’iniziativa del Brigazzi il quale venne subito fatto esempio di come dovrebbe essere un cattolico osservante e timoroso di Dio. La fazione era capeggiata da Elio, un ciabattino che non si perdeva una messa, un cattolico che giungeva al limite del bigottismo senza mai superarlo, ammiratore del dentista e della sua devozione, anzi, un po’ invidioso del fatto che l’idea degli appunti fosse venuta al medico e non a lui, invidia che gli saliva dal profondo dei pensieri ma che subito, grazie ad una vita spesa a controllare i propri impulsi verso qualsiasi tipo di male, ricacciava vittoriosamente indietro. La seconda era composta da varie categorie, tutte accomunate dall’avversione verso lo scrivano: quella degli scettici, molto numerosa, che pensava "ma cosa c’era mai da annotare della predica di Don Lino essendo questa un fatto privato più che un sermone, un dialogo fra il prete e l’Altissimo", quella dei critici feroci, cioè di quelli che hanno il piacere di trovare i difetti nei praticanti, quasi che lo scoprire la pagliuzza nell’occhio altrui mitigasse la presenza della trave nel proprio e che giudicava il Brigazzi un bigotto sbruffone (paolotto bauscione) fino a giungere al capo della fazione, Libero, l’Ateo Dichiarato. Era questi uno spedizioniere, scapolo, che lavorava a Chiasso: pur avendo frequentato solo le scuole elementari, aveva la passione della lettura e passava molte serate praticando questa utile ginnastica mentale (i vicini quando vedevano una luce fioca provenire dalla sua casa commentavano: "Ul Liberu al studia"). Aveva cominciato leggendo una intera enciclopedia e poi, preso da una insana passione politica, si era gettato sui testi marxisti e, con una ostinazione ammirevole, riuscì a metabolizzare quei libri indigesti. Il suo linguaggio chiaramente ne risentiva: i suoi discorsi al bar erano inframmezzati da parole come "sovrastruttura", "lotta di classe", naturalmente dopo che ci si era fatti la "coscienza di classe" finanche usava ogni tanto un terrificante "lumpenproletariat" che stordiva definitivamente gli amici. Uno che non si stancava mai di ascoltarlo, e non era una impresa ardua dato che Libero aveva una parlantina accattivante, era proprio Elio il quale apprezzava il fervore di Libero e, in cuor suo, aveva il desiderio di convertirlo. Si, perché Libero era un ateo convinto e le sue discussioni con Elio finivano sempre per toccare la trascendenza. Gli appunti del dentista non potevano non essere un motivo di contrasto fra i due, così diversi ed in disaccordo su tutto da essere ottimi amici, e il circolo assisteva estasiato ai loro diverbi. Elio, a bassa voce e con il suo gesticolare misurato, elogiava il comportamento del Brigazzi " un così bravo padre di famiglia, un esempio per noi tutti", Libero rispondeva con la sua voce potente e resa roca dalle molte sigarette "come dice Marx la religione è l’oppio dei popoli e quel cavadenti, non contento della sua dose quotidiana, prende nota di quel che dice il prete per potersi drogare il cervello anche a casa, ma la fine del capitalismo è ormai prossima e allora, con la immancabile vittoria del proletariato, le superstizioni religiose saranno spazzate via". A questo punto Elio rispondeva che "prossimo alla fine è il tuo cranio, sta scoppiando, talmente è pieno di panzane comuniste", Libero ribatteva di nuovo (senza mai bestemmiare perché "non puoi offendere chi non esiste" e questo atteggiamento piaceva molto a Elio che non sopportava le bestemmie specialmente quando erano dette da cristiani) e la serata al bar scorreva velocemente per la gioia sia degli avventori che del gestore, felice di avere due clienti di livello come quelli, altro che i soliti ubriaconi e perditempo.
A gettare nuova benzina sul fuoco delle discussioni fu lo stesso Brigazzi, con il suo comportamento sempre più bizzarro: dapprima comprò una moto Harley - Davidson con cui sfrecciava indossando un giubbetto di pelle, borchie e stivaletti, poi i suoi clienti notarono che le sedute nello studio si allungavano notevolmente perché rimaneva spesso al telefono per tenere lunghe conversazioni sottovoce, disinteressandosi del paziente lasciato per periodi spropositati a bocca aperta. Tutto fu chiaro quando il dentista una mattina uscì con la moto e non ritornò perché era scappato con l’amante. La notizia si propagò in un baleno e scoppiò fragorosamente anche perché nessuno era a conoscenza di un pettegolezzo così ghiotto: Brigazzi era riuscito a nascondere a tutti la sua relazione.
Il paese non poteva non dividersi nuovamente fra due fazioni: questa volta però ci fu uno scombussolamento notevole fra i difensori e gli accusatori del dentista in fuga. Molti di quelli che prima lo avevano difeso ora lo accusavano ferocemente e viceversa. Elio e tutti i cattolici praticanti non si spiegavano come un così preciso osservante delle leggi religiose potesse aver perso la testa dietro ad una gonna e, come prima lo avevano incensato molto al di sopra dei suoi effettivi meriti, ora lo criticavano con durezza. L’altra fazione era divisa fra quelli che avevano un motivo in più per diffidare di chi definiva spregiativamente come dei baciapile (rudemente dicevano "più pregano, più te la mettono in quel posto") e chi invece approvava il comportamento del Brigazzi e fra questi il più rappresentativo era naturalmente Libero. L’Ateo Dichiarato ascoltava il suo amico Elio che con tono dimesso diceva "ma come è possibile che una persona così ammodo passi velocemente da una vita irreprensibile ad una senza morale, non ha pensato alla moglie, ai figli.." e poi esplodeva con la sua voce tribunizia "ma non capisci che
questo caso è un esempio lampante della crisi della borghesia, dello sfilacciamento del suo cardine principale, la famiglia? Il Brigazzi si è finalmente liberato dei lacci imposti dalla religione, il suo comportamento indica a noi proletari che la fine del capitalismo è ormai imminente". Elio non ribatteva all’amico ateo e marxista, la sua prostrazione era infatti tale da avergli azzerato ogni spirito polemico: si, perché lui si considerava una vittima del Brigazzi, non certo come la moglie ed i figli ma anche lui vittima, lui che aveva creduto nella forza morale e religiosa del dentista ora si sentiva profondamente deluso, tradito.
In seguito, quando si seppe qualcosa di più concreto sulla fuga, una terza fazione apparve numerosa nel piccolo villaggio, quella che assegnava tutta la colpa all’amante. Intendiamoci, non si trattava di dare la colpa alla donna tentatrice che aveva ammaliato con chissà quali diavolerie il buon padre di famiglia; questa fazione nacque al diffondersi della voce che l’amante fosse svizzera. Cosa importa la nazionalità dell’amante, vi chiederete? Probabilmente nulla nel resto della penisola, ma aveva fondamentale importanza per una parte della popolazione di quel paese, così orgogliosamente fiera di essere distinta dai Confederati, nonostante la geografia e la storia le avessero assegnato una posizione non distante dalla Svizzera.
Ad onor del vero e tralasciando la nazionalità della donna, questa aveva conosciuto il Brigazzi in un momento particolare della sua esistenza, quella in cui un uomo vede l’inarrestabile trascorrere del tempo e, più o meno consciamente, si aggrappa a qualcosa che lo illuda che l’inesorabile passare degli anni possa essere fermato. Quel qualcosa aveva le sembianze di una donna di bell’aspetto, sulla trentina e con una conoscenza del mondo tale da accorgersi subito di aver a che fare con un pollo. Infatti, dopo un mese passato dai due piccioncini in Riviera, fra spiagge, locali alla moda, l’immancabile Casinò di Sanremo e uno sfavillio di vestiti e gioielli, come si accorse che il conto corrente del dentista era ormai prosciugato, la donna prese il volo, naturalmente dopo aver detto "Aurelio, scusa ma c’è troppa differenza di età e di interessi fra di noi, non può durare, finiamola ora che siamo ancora in tempo" e via verso un’altra avventura e un altro portafoglio.
Crollati gli impossibili sogni di giovinezza, con forti dolori muscolari ed articolari dovuti ad un uso sconsiderato della moto, al Brigazzi non restò che tornare mestamente a casa; dopo aver vagliato con cura tutte le alternative alla fine considerò che Matilde lo avrebbe perdonato. Ovviamente la moglie aveva sofferto tantissimo il tradimento, giunto veramente inaspettato, mai avrebbe sospettato dell’infedeltà del marito. D’altronde il Brigazzi fino a quel momento aveva condotto una vita coniugale irreprensibile. Matilde aveva passato dei giorni di immensa prostrazione, non si spiegava quello che era successo, se avesse sbagliato qualcosa o se fosse stata tutta colpa di Aurelio. Alla fine di quei giorni angosciosi le rimase un odio feroce verso il consorte, odio che l’aiutò a reagire e ad uscire dallo stato di prostrazione che l’aveva fatta dimagrire velocemente. Fu così che quando vide il marito apparirle all’improvviso un pomeriggio inoltrato, l’ira le salì subito a livelli mai conosciuti prima e, gridando con voce isterica "Come osi presentarti davanti a me, porco!", gli mollò con tutta la forza possibile un tremendo ceffone. Il Brigazzi incassò lo schiaffo e, a capo chino, quasi piegato su se stesso, disse con un fil di voce: "Ho sbagliato, ti chiedo perdono". Matilde che in quei giorni passati tormentandosi aveva pensato a terribili punizioni da applicare al fedifrago, ora che lo aveva di fronte così annichilito, quasi tremante con le ultime penne da galletto metaforicamente sparse per terra dal violento manrovescio, ebbe compassione di quel rimbambito che poi era sempre suo marito e lo riaccolse in casa, naturalmente dopo avergli fatto espiare l’errore con tutte le armi della perfidia femminile. Il Brigazzi espiò e, da allora, si comportò sempre da perfetto coniuge. Dopo un po’ si rivide anche alla messa domenicale, però nella chiesa del paese di residenza e senza quaderno e matita di scorta, con Matilde che affrontava a testa alta le immancabili malelingue.
La tranquillità tornò in collina, tutti erano contenti, ad eccezione dei pettegoli ai quali era stato tolto un così ghiotto motivo di conversazione e di tutti quelli che gioiscono delle altrui disgrazie. Era soddisfatto Elio, il quale meditava sul fatto che un grande insegnamento del Cristianesimo è quello di non giudicare, e lui come aveva giudicato! Ora, chiedendo mentalmente perdono per il peccato commesso giudicando il dentista, traeva nuova linfa per il suo fervore di praticante.
E Libero? Libero non era in condizione di commentare quanto era successo: infatti stava subendo una devastante crisi …mistica. Eh sì, l’Ateo Dichiarato, il mangiapreti, aveva finalmente letto tutto quanto avesse scritto Marx e non volendo più leggere testi filosofici, perché riteneva il Gigante di Treviri insuperabile ed unico, e avendo ormai una esigenza quasi fisica per la lettura, era passato ai grandi romanzi dell’Ottocento. Per affinità ideologica, aveva scelto i grandi romanzieri russi: incominciò con Resurrezione di Tolstoj e, quasi con angoscia si accorse di essere colpito dal forte sentimento religioso dell’autore. Poi passò a "Delitto e castigo" di Dostoevskij e rimase sbalordito dalla storia del giovane Raskòlnikov e del suo delirio di onnipotenza che lo portò a commettere un terribile delitto. Affascinato da Dostoevskji, da gran metodico quale era, volle conoscere tutto del grande romanziere che scriveva per pagarsi il vizio del gioco: fu così che si imbatté nella frase "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Questo famoso e semplice detto di Dostoevskji incredibilmente esplose nel cervello scientificamente marxista di Libero e lo sconvolse, neanche fosse Sauro di Tarso folgorato sulla via di Damasco. Lentamente ma inesorabilmente questa frase sgretolò tutte le sue convinzioni marxiste sull’avvento del paradiso in terra, avvento che non escludeva l’uso della violenza. Appunto, quando si comincia a tollerare la violenza, poi si permette tutto, altro che il paradiso in terra. Così quella frase, come l’acqua col passare degli anni leviga la pietra, aprì la mente di Libero ad una nuova visione della realtà: non più umanocentrica, basta con l’illusorio umanesimo socialista e le sue promesse irrealizzabili, e tesa verso il trascendente. E questo fu il primo passo; una volta stabilito che Dio doveva esserci, Libero si pose il seguente quesito: in quale Dio, fra i tanti adorati nel mondo, egli doveva credere? La scelta cadde facilmente sul Dio della religione cattolica perché, e qui l’anticlericale rispuntava, se la Chiesa Cattolica in duemila anni di esistenza non è stata distrutta dai preti, questo è il segno della Sua divinità. E così l’orgoglioso Ateo Dichiarato si ritrovò, nel giro di un anno tormentato, schierato nel mondo cattolico: certo cattolico sui generis, che andava a messa tre volte all’anno e non si confessava essendogli rimasto un certo astio verso i preti, ma ora fieramente credente e che preparava un pellegrinaggio a piedi fino a Santiago di Compostela come i pellegrini del Medioevo. A noi non resta da commentare questo strano caso di Libero traviato dalla filosofia e redento dalla letteratura migliore, quella dell’Ottocento. Del resto, si sa, le vie del Signore sono infinite. 
Ronago, 10/12/2000
 


STORIE DI CONFINE - 2 –

Spallone, bricolla, termini di cui si sta perdendo il significato ma che a metà del ventesimo secolo erano ben conosciuti nei paesi di confine: negli anni sessanta e settanta era normale vedere, anche in pieno giorno, i contrabbandieri in lunghe file indiane, quasi in processione, portare sulle spalle dei parallelepipedi, pieni di sigarette, che superavano largamente le loro teste, le bricolle appunto, e spalloni erano chiamati chi le trasportava. Capitava anche di sentire “Stanotte ho lavorato” e chi parlava non aveva di certo fatto un turno di notte in stamperia; il bello era che usavano il termine lavoro con nessun intento ironico, il contrabbando non era considerato qualcosa di illegale ma un vero e proprio lavoro.
Il Genesio era un contrabbandiere. Era anche un laghèe, termine che indica, come ben sapete, chi proviene dai paesi che circondano il lago di Como. I laghèe sono sempre stati degli ottimi contrabbandieri, fra i migliori, avendo forse innata quella voglia di fare cose illecite che il nostro dialetto sintetizza magnificamente con i termini “de sfroos”, parole che indicano proprio quelle azioni fatte di nascosto perché palesemente scorrette.
Il Genesio era un giovane tarchiato, con i capelli neri e ricci, la pelle quasi olivastra cioè caratteristiche somatiche che potrebbero sembrare più mediterranee che padane se non sapessimo che sono frequenti sul lago ed in Valtellina. Aveva movenze rapide e precise, come un felino, e, nonostante la giovane età, aveva già portato in Italia molte bricolle tanto che, con i primi guadagni, si era comprato una moto da cross, una KTM, un nome che chi era giovane in quei tempi, in cui si diffuse molto questo sport fracassone, ricorderà sicuramente con nostalgia. Il nostro spallone con la moto ci sapeva fare ed aveva partecipato anche a qualche gara, comportandosi onorevolmente. Gli organizzatori dei traffici d’importazione di sigarette pensarono di sfruttare questa predisposizione. Fu così che Genesio si trovò trasformato da spallone in palo: per la verità, il termine è un po’ improprio, visto che il suo incarico era quello di controllare i movimenti della Guardia di Finanza facendo finta di allenarsi con la sua moto nei boschi dove sarebbero passati gli spalloni ed il fatto che avesse partecipato a delle competizioni gli sarebbe servito come alibi nel caso i finanzieri si fossero insospettiti a causa della sua presenza vicino al confine.
In un pomeriggio invernale sul finire degli anni sessanta, Genesio si trovò con la sua moto in una ben determinata zona boschiva fra Uggiate e Ronago casualmente vicina alla rete confinaria. Il suo compito era chiaro ed anche facile e dopo un andirivieni che sembrava frenetico ma che invece era stato studiato esclusivamente per anticipare e segnalare il possibile arrivo della Finanza, ormai tranquillizzato, si fermò su un piccolo cocuzzolo, a lato del sentiero, che in quel punto era parallelo al confine, da dove poteva osservare il possibile arrivo di persone indesiderate. Aveva calcolato con i suoi capi che il passaggio delle “bionde” sarebbe durato circa un’ora e, proprio mentre questo periodo si stava concludendo, vide in lontananza una macchina che gli sembrò un’Alfa Romeo Giulia con il caratteristico colore grigio verde della Tributaria, la tribù nel gergo della mala. Preso dall’agitazione, Genesio fece per avviare il potente mezzo ma gli scivolò il piede, perse l’equilibrio e cadde nel fossato sottostante con tutto il peso della moto sopra. Ci sarebbe da ridere se nella rovinosa caduta non si fosse spezzato in malo modo la caviglia, per di più era finito a testa in giù in una cunetta fra il punto rialzato che aveva scelto come osservatorio e il sentiero confinale. Il dolore fortissimo proveniente dall’arto leso, il peso della moto, la posizione innaturale che gli faceva vedere il mondo all’incontrario e la configurazione del terreno, gli impedivano di effettuare il pur minimo movimento. Giaceva ormai da un po’ in questo stato, quando sentì nitido il caratteristico rumore degli zoccoli di un cavallo: nulla di strano, Genesio si trovava non molto distante dal noto centro ippico posto in territorio elvetico quasi sulla linea di confine; era, infatti, un cavaliere svizzero che, vista la bella giornata, aveva lasciato il maneggio per una passeggiata nel bosco.
Lo svizzero percepì i lamenti di Genesio, lo vide rannicchiato sotto la moto, fermò immediatamente il cavallo e ancor più velocemente, decise cosa fare, anzi lo esternò subito con un sonoro “Ma va a da via ‘l c…” con il suono dell’ultima vocale accentata che echeggiò nella valletta: i fatti seguirono le parole e il cavaliere si allontanò senza alcun indugio. A questo punto, premesso che se lo sventurato fosse stato svizzero il soccorso ci sarebbe stato di sicuro, conviene cercare di dare una spiegazione a chi giudica ingiustificabile questo comportamento, a chi si chiede perché non ci sia stato un intervento da buon samaritano da parte di chi montava l’incolpevole cavallo. Noi gente di confine, che con gli svizzeri conviviamo da cinque secoli, sappiamo benissimo qual è l’atteggiamento dei confederati quando c’è un italiano in difficoltà: l’aiuto non è un atto dovuto ma dipende da valutazioni che possono essere più o meno irrazionali, legate a tante variabili incomprensibili, talmente incomprensibili che chi scrive ritiene una perdita di tempo cercare di capirle. Il cavaliere del nostro racconto per chissà quale ragionamento (ragionamento?) stabilì che il ferito non doveva essere aiutato e che i suoi cavoli avrebbe dovuto risolverli da solo. Forse la spiegazione di tutto ciò sta nel fatto che noi comaschi e i ticinesi abbiamo lo stesso genotipo, stessi cognomi stesso dialetto anche se con diversa cadenza, ma il fenotipo, vale a dire le modifiche provocate dall’ambiente ed in questo caso il preponderante influsso svizzero - tedesco sul Cantone di lingua italiana, ha influito in modo decisivo sui ticinesi tanto che hanno verso di noi un rapporto di attrazione e repulsione che poi porta a strani episodi come quello appena descritto.
E Genesio? Bè il Genesio non era in condizione di filosofeggiare sulla mancata assistenza ma inconsciamente intuiva che non poteva illudersi di essere tolto dalla scomoda posizione; per questo si limitò a dire “Svizar”, più una constatazione che un’imprecazione.
Solo a tarda ora, quando ormai la notte era scesa con il suo freddo a tormentare il malcapitato, Genesio fu salvato dall’assideramento; e non dai suoi compagni, che se ne stavano tranquilli ad aspettarlo al bar e che furono gli ultimi a sapere dell’incidente, ma dalla Guardia di Finanza. Eh già, in quella grande partita a guardie e ladri che si combatteva sul confine in quegli anni, successe che le guardie aiutarono il ladro senza neanche comprendere chi veramente si trovassero a soccorrere. Recitava, infatti, il rapporto dei finanzieri che “… dovettero abbandonare la programmata vigilanza del territorio per la lotta al contrabbando al fine di correre in aiuto di un giovane ferito a causa della perdita del controllo della moto a cavallo della quale percorreva, per proprio diletto e con lucida incoscienza, un sentiero sterrato in località …”
Genesio portò baldanzosamente a spasso le proprie stampelle ed il gesso per un mese e a tutti spiegava che si era fatto male mentre era in testa e mancava un solo giro al traguardo, eh sì…

Genesio è, naturalmente, un nome di fantasia:
l’ho scelto in onore del laghèe Davide Van de
Sfroos Bernasconi




 

PERSONAGGI DI UN ALTRO SECOLO - 1 -
Gli anni settanta del secolo scorso sono ormai passati alla storia con la definizione di anni di piombo. Anni grigi, di odio e sovente il piombo lasciava una lunga striscia rossa di sangue. L’ambiente politico era talmente deteriorato che la civile contrapposizione di idee non era più praticata e l’avversario era solo un nemico con cui il dialogo era improponibile anzi, non si tentava nemmeno, la politica era lotta totale, feroce. Questa atmosfera particolare si avvertiva specialmente nelle scuole, dove l’esuberanza giovanile si sposava con la voglia di cambiare tutto e subito, e tanti pensavano di sovvertire lo Stato ritenuto non democratico: in quel clima, difficile da spiegare ora specialmente a chi non l’ha vissuto, le parole di odio lasciarono spazio sempre più spesso alle armi: dapprima quelle improprie, per esempio la tenaglia inglese brandita minacciosamente nei cortei e poi usata sulle teste degli avversari, ed infine, in una tragica spirale inarrestabile, il piombo entrò nella contesa politica.
In quel periodo giocavo a pallone nel Valmorea, campionato Juniores, le partite si svolgevano su un campo con un manto erboso molto bello e che ora, purtroppo, non esiste più perché fu usato per la costruzione delle scuole elementari del paese. Come spogliatoi utilizzavamo quelli dell’adiacente scuola media e con me, fra gli altri calciatori, si trovava un giovane di Carimate, Luigi Mascagni. Anche lui frequentava il Liceo scientifico di Como, ma in una sezione diversa dalla mia e solo il fatto di giocare nella stessa squadra di calcio permise la reciproca conoscenza. Sì, perché allora le idee politiche determinavano anche le amicizie e Mascagni era un rosso, sempre in prima fila nel volantinaggio all’entrata della scuola mentre io non avevo ancora idee ben definite ma una cosa avevo chiara in testa ed era un anticomunismo viscerale, anticomunismo che era aumentato esponenzialmente a causa del libro "Arcipelago Gulag" di Solzhenicyn che proprio in quei giorni bevevo (si può bere un libro? Certamente, anzi un libro come quello te lo spari direttamente nelle vene e ti si imprime per sempre nel cervello).
Quello che la politica divideva il calcio riuniva: entrambi sapevamo di essere in campi opposti, ma un patto tacito faceva sì che le divisioni rimanessero fuori degli spogliatoi e fu una fortuna perché Luigi era una gran brava persona, generosa ed ironica. Personalità che si intravedeva anche nel modo di giocare, era infatti un centrocampista alla Oriali, per fare un esempio che i cultori del calcio possono immediatamente capire, in altre parole un laborioso lavoratore al servizio della squadra, tutto cuore e polmoni, correttissimo in uno sport in cui l’unica cosa che conta è vincere. Mentre io ero un eclettico che ricopriva tutti i ruoli tranne il portiere, come adesso nella vita faccio più o meno bene tante cose, lui era un metodico, sempre quell’onesto faticare a centrocampo senza sprazzi ma di cui capivi l’importanza quelle rare volte in cui era assente. E poi aveva la battuta pronta, possedeva l’arte innata di prendersi in giro che fa superare i momenti di difficoltà come quella volta che perdemmo dopo avere sbagliato due rigori ed uno dei due errori sciagurati l’avevo commesso io tirando sopra la traversa: Luigi mi aveva consolato a lungo (un rigore sbagliato è come perdere a scacchi, una sconfitta assoluta, solo tua, dove non puoi invocare nessuna scusante).
Anche quel campionato finì e le nostre strade si divisero, terminò anche il Liceo e ci iscrivemmo all’Università degli Studi di Milano, in corsi diversi ma ogni tanto ci vedevamo perché la sua facoltà era adiacente alla mia. Lo vedevo con il suo eskimo che allora non era solo un soprabito ma anche il segno di una appartenenza allo schieramento di sinistra e ci scambiavamo sempre due parole in amicizia, evitando con accuratezza di parlare di argomenti politici. Incontri che si fecero sempre più rari con il passare degli anni finché non ebbi più occasioni di incontrarlo.
Fu così che i primi di luglio del 1979 lessi con raccapriccio misto a stupore che il cadavere di uno studente, Luigi Mascagni, era stato rinvenuto al Parco Lambro di Milano. Era stata una vera e propria esecuzione, colpito alla schiena con un’arma da fuoco. Non si seppe mai chi fu il colpevole, se qualcuno dell’estrema destra o se fu vittima di una faida fra i tanti gruppuscoli della sinistra extraparlamentare molti dei quali, come le Brigate Rosse e Prima Linea, avevano scelto da tempo la lotta armata. I giornali ne parlarono per un po’, ipotizzando vari scenari, e poi tutto scivolò lentamente nell’oblio, alla fine rimase uno dei tanti delitti irrisolti di quel periodo plumbeo.
Ma da quell’oblio ogni tanto lo faccio uscire con i miei pensieri: quando penso a quel periodo giovanile della mia esistenza quello che mi ricordo, e di cui ho nostalgia, sono l’odore dell’erba del campo di calcio appena tagliata, gli spogliatoi con la loro aria umida di sudore ed il viso di Luigi Mascagni, sempre serio ma con gli occhi sorridenti, mentre indossa quella inverosimile maglia verde con striscia diagonale rossa che era la nostra casacca.
Aveva due passioni Luigi Mascagni: una, il calcio, gli ha regalato intensi sprazzi di felicità condivisi con i suoi compagni di squadra, l’altra, la politica intrisa di forsennate ideologie, gli ha procurato una morte prematura.
Ronago lì 11/09/2000

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