PERSONAGGI
DI UN ALTRO SECOLO – 9
Dopo
la fondamentale poesia “La rima del vecchio marinaio” di Samuel
Taylor Coleridge il mondo è stato diviso, inesorabilmente ed
inevitabilmente, in due categorie: quella dei “vecchi marinai” e
quella degli “invitati a nozze”. Narra il poeta inglese la storia
di un vecchio marinaio e della sua nave che, in un anno sul finire
del Settecento, durante una perigliosa navigazione nei mari
antartici, fu spinta da una tempesta nelle acque fredde vicino al
Polo finché comparve un grosso uccello marino, l’albatro, il quale
seguì per giorni e giorni la nave fino a quando un buon vento da Sud
portò il veliero in mari più tranquilli. E di come il vecchio
marinaio, contro ogni regola di ospitalità, uccise con una freccia
il povero e incolpevole uccello, morte ingiusta che fece da preludio,
anzi fu la causa scatenante del decesso di tutti i membri
dell’equipaggio. Con un’unica eccezione: proprio il vecchio
marinaio riuscì a tornare in Inghilterra dove si confessò da un
Eremita che lo assolse dal peccato di aver ucciso inutilmente
l’innocente albatro ma con la penitenza di dover narrare, per tutta
la vita, la sua tragica avventura alle persone indicategli dal
suo intuito. Infatti, la poesia inizia con il vecchio marinaio che
sceglie uno di tre invitati ad un matrimonio incrociati mentre
si recano alla cerimonia, uno solo e solo quello, e il prescelto non
riesce a staccarsi dall’occhio acceso dell’uomo di mare tanto che
si può parlare di un vecchio marinaio costretto a raccontare ma
anche di un invitato obbligato ad ascoltare. Adesso, cari lettori,
concentratevi sulle vostre conoscenze: senza ombra di dubbio vi verrà
in mente qualcuno che, senza esitazione, vi ha raccontato tutto della
sua vita e delle sue opere: è un Vecchio Marinaio. Conoscerete anche
qualcheduno che, senza essere villano o sgarbato, preferisce non
parlare di se stesso anzi predilige l’ascoltare al narrare: è un
Invitato a Nozze. Per esempio io sono un Invitato: non parlo della
mia vita ed ho notato che spesso incontro persone le quali,
spontaneamente, mi riferiscono molto, se non tutto, della propria
esistenza. Il Ferverio, Augusto Ferverio per la precisione, è uno di
questi: l’ho incontrato per motivi di lavoro e nel tempo di una
mezzora abbondante mi ha raccontato gran parte della sua vita. Da
notare che io non lo conoscevo, mai visto prima, nessuna cosa al
mondo poteva spingerlo a riferirmi gli affari suoi se non
l’istinto del Vecchio Marinaio a parlare, parlare. La logorrea che
ha bisogno di uscire dal corpo. Mentre guidava una Mercedes nera e
scintillante, il Ferverio mi informò del suo primo lavoro a tredici
anni come garzone di un prestinaio, lavoro durato due anni e
abbandonato per una stamperia, con turni diurni e notturni, attività
pesante ma appassionante. Nella stamperia fece una rapida carriera
tanto da salire tutti in gradini gerarchici e arrivare, infine, alla
carica di responsabile dello stabilimento. Ora, dopo quaranta anni di
lavoro, era in pensione ma non si era fermato a riposare perché
curava un piccolo zoo formato da due vitelli, un asino, un pony
e due caprette tibetane. Aveva preso anche un trattore nonché tutta
l’attrezzatura per curare i campi intorno alla sua casa e produrre
gli alimenti per gli animali tornando così, non tanto
inconsciamente, alla vita contadina della sua infanzia. Mentre lui
parlava e parlava, io, l’Invitato a nozze, non potevo fare altro
che ascoltare, assentire ogni tanto con i movimenti della testa,
mormorare qualche “ah” o qualche “davvero” e “però”: non
c’è scambio di vedute fra un Vecchio Marinaio ed un Invitato, la
regia è rigida ed immodificabile, uno si esprime e l’altro
assiste. Nel frattempo, Augusto era passato a comunicarmi il suo
stato di famiglia, la moglie conosciuta in stamperia, un amore
aziendale si potrebbe dire, sposata di fretta e furia perché il
Ferverio non era veloce solo con le parole, dopo cinque mesi era nata
la prima figlia e dopo tre anni ancora una bimba, “sì, avrei
preferito un maschio ma va bene così lo stesso, il futuro è delle
donne” e io assentivo, non perché convinto della bontà della sua
tesi ma semplicemente perché terrorizzato che mi spiegasse i motivi
di tale affermazione. Le bimbe nel frattempo erano cresciute, “brave
figliole, grandi lavoratrici e con la testa sulle spalle” e la
maggiore si era anche sposata ed ora aspettava il primo bambino,
all’Augusto luccicavano gli occhi mentre me lo dichiarava,
pregustando già l’attività del nonno a tempo pieno. La figlia
minore invece viveva ancora in casa, niente ragazzo, sì ne aveva
avuto uno ma era un balordo, il Ferverio ringraziava tutti i Santi
del calendario perché la storia si era interrotta e poi “adesso
non è come una volta che una donna non sposata era una zitella e
basta, adesso le donne si possono realizzare anche al di fuori del
matrimonio”. Il Vecchio Marinaio divulgava la sua vita ed io, il
misero Invitato costretto a sopportare il profluvio di parole come i
sassi dei torrenti di montagna subiscono l’impeto dell’acqua,
pensavo se il buon Coleridge si fosse reso conto, nello scrivere la
sua bella poesia lassù, fra le brume inglesi, di essere riuscito
pienamente a conseguire il vero risultato a cui aspirano tutti quelli
che scrivono: creare personaggi immortali.
Intanto
Augusto aveva finito l’argomento della famiglia e, sempre con il
tono di quello che racconta fatti fondamentali, era passato a
trattare della sua Mercedes, nera e con il cambio automatico:
probabilmente aveva notato che guardavo con interesse la scatola del
cambio e comprese all’istante che non capivo nulla di quel che
vedevo perché partì con una descrizione particolareggiata sia della
meccanica che dell’utilità di avere una macchina con il cambio
automatizzato. Passare ad una completa descrizione dei pregi della
Mercedes fu una conseguenza logica e prevista: comodità,
silenziosità e signorilità furono gli aggettivi usati da Augusto e
immancabilmente arrivò il consiglio di acquistare, in futuro, una
Mercedes. Cosciente del mio essere un Invitato a nozze non ribattei,
come faccio sempre quando mi magnificano qualche auto straniera,
dicendo che acquisito esclusivamente auto italiane, vale a dire Fiat
o marchi collegati, inutile spiegargli che io su una macchina
straniera non mi sento comodo, mi sembra di non essere nella mia casa
tale è la familiarità che mi propaga il rumore di un motore Fiat.
Frattanto il Ferverio mi stava informando dei pregi del motore
diesel, di quanto fosse economico, lui per esempio era andato e
tornato, l’ultima estate, da Castiglione della Pescaia con lo
stesso pieno. Mi informò che il viaggio di andata e ritorno, da un
luogo di vacanza nello stesso giorno, furono provocati
dall’improvvisa morte del suocero della figlia. Appena arrivati in
albergo arrivò la telefonata del decesso e la rombante
Mercedes riportò a casa Augusto e moglie. Come senz’altro avrete
già intuito Ferverio mi spiegò nei minimi particolari il malanno
del consuocero, un infarto fulminante, abbattutosi all’improvviso
su un uomo ancora giovane, un quasi sessantenne sportivo “sì,
fumava, ma solo dopo aver mangiato, non era una ciminiera”.
Inarrestabile Ferverio, il suo viaggio nei mari del Sud non sembrava
avere una fine. E pensare che incominciò la nostra conversazione con
una domanda, un innocuo “ma lei di dov’è?”. Sentendo il nome
di Ronago commentò con un “ah, il paese dei contrabbandieri”,
spiegazione che non mi stupì affatto tante sono le volte che l’ho
sentita. Non mi sconcertò neanche la rilevazione di Augusto che in
gioventù aveva fatto lo spallone, passando attraverso il confine
anche nel territorio di Ronago, a dimostrazione che si può essere
contrabbandiere senza abitare vicino al confine. Però la nomea di
contrabbandiere colpisce noi di Ronago. Nulla di grave comunque, c’è
di peggio, ad un abitante di Corleone può capitare di sentirsi dire
“ah, il paese della mafia” e, sempre rimanendo in ambito locale,
noi ronaghesi possiamo incorrere in disavventure più antipatiche.
Come quella volta a Lomazzo, in anni ormai lontani, dove
difendevo i colori del Bar Graziella di Ronago in un torneo serale di
calcio. Giocavamo contro una squadra locale e i lomazzesi non si
limitavano ad incitare i loro beniamini ma denigravano con gusto la
mia squadra. Nulla di anormale, il tifo calcistico è notoriamente
becero. Però, mi chiedo ancora dopo tutti questi anni, dovevano
proprio urlare verso di noi “Hopp Suisse, Hopp Suisse”, per tutta
la partita? Datemi pure del contrabbandiere, ma non dileggiatemi
perché abito sul confine, o abitanti della bassa comasca, pensavo,
mentre gli “Hopp Suisse”, un incitamento molto in uso nella
vicina Confederazione simile al nostro “Forza Azzurri”, anziché
deprimermi stimolavano il mio impegno. Naturalmente Augusto non si
accorse che non lo seguivo nelle sue argomentazioni perché a tutti i
Vecchi Marinai non interessano affatto quanto siano ascoltati i loro
discorsi: sono talmente concentrati nella loro verbosità che tutto
quanto esula dai loro ragionamenti è bellamente ignorato. Questa è
la vera, unica difesa che l’Invitato a nozze può dispiegare contro
il Vecchio Marinaio: quando l’uccisione dell’albatro è ancora
lontana, e dell’Eremita non si vede traccia, la reale ancora di
salvezza è pensare ad altro. Come feci io in quell’occasione,
meglio ricordarmi quella partita a Lomazzo, la casacca bianca con Bar
Graziella Ronago scritto in rosso, il colletto incredibilmente
stretto e rigido in quella calda ed umida serata di giugno, tanto
premuto sul collo che me la presi con Vincenzo, il figlio della
Graziella: come mai non avevano pensato ad una maglietta con il collo
aperto, maledizione, ci volevano far morire dal caldo? E la partita,
vinta con uno striminzito uno a zero, un golletto fortunoso provocato
da un rimpallo con una traiettoria maligna che ingannò l’incolpevole
portiere avversario. Un vantaggio strenuamente difeso con un
catenaccio gigantesco. Sì, quella volta la fortuna ci aiutò in modo
decisivo. Sicuramente Eupalla, la Dea del calcio, ci fece vincere
perché non sopportò il dileggio ingiustificato.
17/03/05
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