PERSONAGGI
DI UN ALTRO SECOLO - 7 –
I
due uomini, seduti al tavolo d’angolo in fondo al locale del Bar
Cigno di Olgiate Comasco, si odiavano. Odio ben dissimulato da un
sorriso lievemente accennato che lasciava intravedere i denti
bianchissimi nel Napoletano. Odio che trasudava da ogni centimetro di
pelle nella faccia scura e tesa di Domenico Collima. Sorrideva il
Napoletano, ma pensava “che me tocca fa’ pe’ campà, sopportare
sto fetente antipatico” mentre il Collima guardava l’altro con
una faccia disgustata, la commessura delle labbra di destra piegata
all’ingiù, gli occhi ridotti ad una fessura ma che riuscivano lo
stesso a mandare lampi di disprezzo. A differenza di quanto indicava
il nome, il Napoletano non era di Napoli ma di Casal di Principe,
provincia di Caserta. Aveva il vezzo di ricordare la sua provenienza,
la fertile pianura ricavata dalla bonifica dei terreni paludosi
intorno al tragitto del fiume Volturno detta Terra di Lavoro, le
prime volte che per guadagnare era salito nel Nord dell’Italia. Poi
smise, per i frequenti sorrisini ironici, se non di compatimento, che
doveva sopportare: per troppi polentoni un terrone non poteva
provenire da una Terra di Lavoro, un meridionale non aveva nessun
legame con il lavoro. Ma sì, meglio passare per Napoletano,
specialmente con questo brutto ceffo che mi odia e non cerca neanche
di nasconderlo. Era la prima volta che saliva così a Nord, così
vicino alla Svizzera, al massimo era arrivato fino a Saronno o
Tradate. Più si sale in Italia e più i polentoni peggiorano,
considerò mentre guardava Collima, i compaesani emigrati mi avevano
riferito che i comaschi sono chiusi, ma questo qui è più freddo di
una lapide di granito. Non sapeva il Napoletano che il Collima non
poteva essere preso come prototipo dei comaschi perché egli era
inviso anche a questi, la sua impopolarità era talmente elevata e
diffusa da rendere impossibile trovare qualcuno che lo difendesse.
Già il suo soprannome indicava, senza ombra di dubbio, la negatività
del personaggio: Caino. Intendiamoci, non aveva ucciso nessun
fratello, anzi non aveva ucciso proprio nessuno, però, omicidio a
parte, nel corso della sua ormai lunga vita aveva commesso tutte le
nefandezze possibili. Alto e magro, la fronte solcata da rughe e resa
ancor più spaziosa da una calvizie che gli aveva ridotto i capelli a
due mucchietti incolti sopra le orecchie, un naso leggermente
aquilino e due occhi piccoli infossati nelle palpebre, Domenico
Collima detto Caino non aveva nulla per suscitare simpatia.
Specialmente nei rapporti interpersonali dava il peggio di se stesso.
Era diffidente, sospettoso, riteneva che il mondo fosse naturalmente
malvagio ed in lotta contro di lui, praticamente impossibile
instaurare un dialogo perché qualsiasi cosa detta poteva essere
presa come un pretesto per scatenare i suoi sospetti e le sue
risposte sgarbate. Si comportava come quei cani timorosi che guardano
gli estranei di sottecchi e ringhiano appena questi si avvicinano.
Nel corso degli anni si instaurò un circolo vizioso nel quale chi lo
conosceva e doveva parlargli, per prima cosa cercava di evitare
l’incontro e, quando l’approccio diventava inevitabile, indossava
una metaforica corazza pronto alla battaglia mentre l’atteggiamento
aggressivo degli interlocutori aumentava in Caino la convinzione che
l’astio fosse alla base dei rapporti umani. Come sempre quando il
personaggio è notevole, specialmente nei difetti, fiorivano per
tutta la collina gli aneddoti. C’era chi faceva risalire
l’atteggiamento da cane rabbioso del Domenico ad un’infanzia
infelice, ad un padre manesco che prima lo picchiava e poi, forse, si
spiegava. Altri, specialmente quelli che lo frequentavano per motivi
di lavoro, interpretavano la sua aggressività con il fatto che il
Collima fosse un colossale ignorante, che il diploma l’avesse
ottenuto per sfiancamento dei professori, stanchi di averlo tra i
piedi, che poteva lavorare solo in quel posto pubblico grazie a
qualche raccomandazione e l’aggressività serviva semplicemente a
mascherare la sua totale incompetenza. Caino non si rendeva conto di
essere la causa dei rapporti turbolenti con i conoscenti, anzi si
considerava una brava persona costretta a difendersi da un mondo
pieno di mascalzoni, a fregare per non essere fregato. Anche adesso
cercava di imbrogliare il Napoletano, ma si stava accorgendo di aver
a che fare con un osso duro, molto duro. I due non si conoscevano, si
trovavano in quel bar per una compravendita di un quadro di un
francese, Arman Fernandez, un artista che si dilettava a
rappresentare oggetti tagliati e segati oppure rotti o danneggiati.
Il quadro che Caino voleva vendere aveva le dimensioni di circa 30
per 40 centimetri e raffigurava un violino tagliato con tagli
longitudinali. L’aveva comprato un mese prima da un industriale
tessile che si trovava sull’orlo del fallimento, se non già oltre
perché, in cerca di liquidi per tacitare la torma di creditori, fu
costretto ad accettare l’offerta, di sole cinquecentomila lire, di
quello strozzino di Collima. E pensare che l’aveva acquistato
sborsando cinque milioni. Caino non amava l’arte, la bellezza di
un’opera non lo interessava, il suo orizzonte era solo quello del
guadagno. Il nostro personaggio si era specializzato in compravendita
di oggetti d’arte, specialmente quadri; non era un collezionista,
la sua attività era quella di comprare e rivendere, cercando di
azzeccare l’artista con un radioso futuro per guadagnare di più.
Arman era uno di questi, perché già negli anni sessanta aveva
esposto in tutta Europa ed anche in America, compreso il famoso MOMA
di New York. Un artista conosciuto ma con notevoli possibilità di
diventare ancor più celebre ora che il secolo stava per terminare.
Il quadro valeva almeno dieci milioni, ma l’ingordo Domenico
ne voleva guadagnare perlomeno quindici. Il suo normale giro di
conoscenti non era disposto a sborsare una tale cifra, tanto che gli
consigliarono di rivolgersi al Napoletano, l’unico disposto a
scucire una così grande somma grazie al suo vasto giro di
compravendita che interessava tutto il territorio nazionale. Caino
non voleva trattare con un estraneo, per di più terrone, però gli
attestati di stima del forestiero erano diffusi, cosicché si fece
convincere. Con un giro di telefonate organizzò l’appuntamento;
scelse un locale frequentato come il bar Cigno e, per evitare
sgradite sorprese si fece accompagnare dal Moscerino, un energumeno
con un cervello inversamente proporzionale alla notevole stazza e dal
quale reclamava un credito. Per sdebitarsi il Moscerino stava seduto
nel tavolino vicino a quello di Caino e del Napoletano sorseggiando
una birra e controllando tutto quello che capitava nel bar pronto ad
intervenire al minimo cenno del Collima. La trattativa languiva,
nonostante i due contendenti fossero seduti da quasi un’ora: Caino
aveva iniziato sparando una richiesta di venticinque milioni di lire
ed ora era sceso a venti milioni, il Napoletano, sempre sorridendo,
era rimasto irremovibile su un’offerta di dieci milioni, spiegando
dottamente nel suo italiano forbito che questa era la quotazione
delle case d’asta e non poteva salire perché non ci avrebbe
guadagnato nulla. Collima controbatteva ringhiando che Arman non
aveva ancora raggiunto l’apice della sua carriera e certamente la
sua valutazione avrebbe raggiunto persino i cento milioni. Dopo altri
trenta minuti Domenico scese a diciotto milioni mentre il Napoletano
offriva dodici milioni. Finalmente, dopo un’altra mezzora e due
plateali tentativi di Caino di abbandonare la trattativa che
ottennero solo di far brillare la dentatura perfetta del Napoletano,
i due si accordarono sulla cifra di quindici milioni di lire. Lesto,
il Napoletano estrasse una busta con i soldi e la diede al Collima;
questi, dopo aver inumidito il pollice con la lingua, contò
velocemente i biglietti, tutti da cinquecentomila. Trenta biglietti.
Di colpo gli passò la gioia di aver ottenuto la somma che desiderava
perché la busta già preparata con i soldi esatti significava che
quel bastardo di Napoletano sapeva già prima di iniziare che
quindici milioni sarebbero stati sufficienti per acquistare il
quadro, e allora, pensava Domenico, perché farmi perdere ben due ore
quando potevamo accordarci subito. Tipico ragionamento da Caino, come
se non sapesse che se il Napoletano avesse proposto immediatamente i
quindici milioni, lui non sarebbe mai sceso sotto i venti milioni. Il
personaggio era così, pronto a vedere i difetti altrui, mai i
propri. Rispose con un grugnito al saluto del Napoletano e non
strinse la mano tesa di questi. Il Napoletano rimase con la mano
protesa nel vuoto per un istante, poi sospirò e uscì dal bar con il
quadro: basta con questa vita randagia – pensò – me ne torno al
mio paesello, non ne posso più di ‘sti sfottuti arricchiti, tasche
piene ma cervello arido.
Il
Moscerino, poiché l’incontro era terminato, chiese a Caino se
dovesse accompagnarlo a casa o in banca a depositare la cifra e si
prese come risposta un “ma va foera di ball non sei servito a
niente, potevo fare a meno di chiamarti, e poi i soldi me li devi
ancora tutti, meno centomila lire per il tempo che ti ho fatto
perdere”. Il Moscerino avrebbe potuto stenderlo spostando solo un
braccio ma lasciò perdere, in fondo era un bonaccione e aveva già
troppi guai da non poter rischiare di aggiungerne altri. Si alzò e,
senza salutarlo, se ne andò dal bar seguito dagli insulti di Caino:
“uhei, farabutto, non saluti chi è più anziano di te,
maleducato...” proprio lui gridava, lui che non salutava mai per
primo e quasi mai rispondeva a meno che si trattasse di qualche
persona importante; in quel caso si sprecava in salamelecchi e
comportamenti mielosi. Per associazioni di idee al Collima ricordò
un altro che non lo riveriva mai, Andrea detto il Ganasìn, Era
questi un suo sottoposto nell’ufficio pubblico dove Caino lavorava:
l’ufficio, in verità, era composto da tre persone, tutte e tre
diplomate e con pari incarico, però Collima aveva la funzione di
responsabile perché era fornito di un maggior numero di anni di
servizio. Gli altri due si chiamavano Oreste ed Andrea: Oreste non
gli creava nessun problema perché era succube e timoroso del
caratteraccio di Caino e, sperando in un miglior trattamento da parte
del suo superiore, aveva un comportamento servile ed estremamente
ossequioso. Tale comportamento non gli serviva affatto per
ingraziarselo, anzi, era deleterio perché Caino era forte con i
deboli e debole con i forti e, infatti, trattava Oreste come uno
zerbino: calpestandolo. Diverso invece il contegno di Andrea: molto
più giovane degli altri due, quando si trovò a lavorare con Caino
all’inizio cercò di comportarsi nel migliore dei modi poi,
constatando che Collima lo vedeva come un possibile rivale ed era
inverosimile andare d’accordo, anzi Caino non perdeva occasione per
metterlo in difficoltà, si decise a rispondere colpo su colpo.
Iniziò così una guerra infinita con Caino nella parte
dell’attaccante ed Andrea sulla linea del Piave pronto a ribattere
ogni volta, specialmente con le parole, tanto da meritarsi il
soprannome di Ganasin (dal dialettale ganassa che indica una persona
superba nell’uso della parola e quindi con la ganascia, o mascella,
sempre in movimento) che subito Caino gli appioppò. La situazione
degenerò talmente che Andrea, quando si alzava ogni mattina, per
prima cosa pensava “chissà che carognata starà preparandomi oggi”
mentre nello stesso momento il Collima passava il tempo a studiare
qualcosa per mettere in difficoltà quella canaglia di Andrea che
neanche lo salutava. Anche ora, seduto al bar mentre mangiava un
gelato e con i quindici milioni in tasca, non riusciva a dimenticare
il Ganasìn: doveva studiare qualche cosa in fretta per dargli una
lezione perché ormai era prossimo alla pensione, mancavano solo due
mesi. In realtà Andrea aveva fatto un errore perché aveva ordinato
all’economato di Como del materiale di cancelleria senza la firma
di assenso del Collima: un erroruccio, vista anche la modesta entità
dell’ordine, ma che per Caino poteva essere il grimaldello per
costringere i superiori di Como a richiamare Andrea ad un
comportamento rispettoso della gerarchia. Sì, lavorando un po’ i
dirigenti della sede di Como e facendo passare l’imprudenza di
Andrea per un atto d’insubordinazione poteva fargliela pagare cara
a quel verme del Ganasìn. Finito il gelato Caino si alzò ed uscì
dal locale per recarsi nella banca, posta di fianco al bar Cigno, per
depositare i soldi. Appoggiata ad una colonna del porticato che
circondava il palazzo del bar, c’era una donna che interpellò
Caino con un “mi scusi, signore, potrebbe darmi una mano per
arrivare alla mia macchina posteggiata qui sotto, sa, come può ben
vedere mi si è appena rotto un tacco di una scarpa”. Se la signora
avesse interpellato Caino in un giorno normale, avrebbe ottenuto una
risposta del tipo “ma vadi a casa a far la calzetta”, con spregio
del congiuntivo e del galateo, ma quello non era un giorno normale,
Caino aveva appena fatto un affare nonostante il Napoletano e, forse,
c’era una soluzione al problema Ganasìn. Di conseguenza Domenico
era ben disposto verso il resto del mondo, certo sempre nei suoi
limiti, e quindi borbottò “non dovrebbe calzare scarpe con tacchi
da dieci centimetri” ottenendo come risposta uno scontato “dovrebbe
sapere che per apparire bisogna soffrire”. In effetti, il palazzo
del Bar Cigno è circondato da un porticato diviso dal posteggio
sottostante da due ripidi gradini, la donna con un tacco solo avrebbe
avuto serie difficoltà a scendere senza l’aiuto del bofonchiante
Caino. La signora, appoggiandosi a Domenico e saltellando non poco,
raggiunse l’auto, ringraziò l’uomo e se ne andò in direzione
Varese. Caino invece si diresse verso la vicina banca meditando sul
fatto che la donna avrebbe avuto serie difficoltà a guidare con una
scarpa senza tacco. All’entrata dell’agenzia Domenico cercò la
busta con i soldi e non la trovò. Fregato. Si era fatto raggirare
con un trucco neanche tanto originale. Guardò verso la strada ma
l’auto era già sparita oltre il semaforo.
Sarà
stato il destino o l’irritazione provocata dal furto dei soldi, due
giorni dopo i fatti appena raccontati, due giorni passati alla
ricerca affannosa del Napoletano e a maledire chi gli aveva
consigliato quel ladro, Domenico Collima detto Caino subì un
devastante ictus che lo portò in coma per una settimana. Dopo altre
due settimane di ospedale ed un mese di rieducazione in un centro
specializzato, per la verità con scarsi risultati, tornò a casa con
la paralisi della parte destra del corpo e la totale perdita della
parola. Per Caino cominciò una nuova vita passata per lo più a
letto o seduto sulla carrozzina. Per sua fortuna c’era la moglie
Giannina che lo accudiva. Eh sì, una persona così insensibile era
riuscita lo stesso a sposarsi: cosa aveva trovato in lui la Giannina
resta un mistero insoluto, mentre era d’altronde talmente evidente
il fatto che Caino avesse plagiato la moglie. Infatti, lei era
convinta che suo marito fosse uno stimabile galantuomo perseguitato
da tutti perché invidiosi della sua bontà. A dimostrazione della
sottomissione basta dire che la Giannina considerava un vanto quello
di non essere mai stata picchiata da Caino e i continui rimbrotti e
villanie subite dal marito, anche pubblici non solo nelle mura di
casa, erano dovuti al fatto che lei non era all’altezza
dell’intelligenza del marito. Giannina ragionava così: lui
mi tratta male non perché è una carogna ma solo perché io non lo
capisco, quindi la colpa è mia. Probabilmente il loro matrimonio
reggeva proprio perché Caino concepiva i rapporti umani come una
lotta di sopraffazione e la Giannina era tutta contenta di essere
sottomessa. Nella disgrazia Giannina si comportò meglio di una
crocerossina. Accudiva da sola il marito, per fortuna era di robusta
costituzione e riusciva a fare da sola attività sempre difficili con
un paralizzato come il passaggio dal letto alla carrozzina, solo per
il bagno si faceva aiutare da un’infermiera. Giannina non lo
avrebbe mai ammesso, ma sotto sotto la situazione non le dispiaceva:
poteva accudire al marito senza sentire le sue lamentele, quel
continuo lagnarsi di tutto e di tutti che era stata la colonna sonora
della sua vita matrimoniale.
E
incominciarono anche le visite dei parenti, dei vicini e dei
conoscenti. Queste visite avevano tutte un comun denominatore: la
Giannina introduceva i visitatori, nella camera da letto o nel
soggiorno a seconda di dove si trovava in quel momento Domenico, a
letto o nella carrozzella, spiegava cosa era successo a quel povero
marito, il momento dell’ictus, la decenza, la riabilitazione e
terminava con l’immancabile “oh povera me, cosa mi è successo,
che croce, che croce mi tocca portare”. Poi, se gli ospiti erano
comari come lei, passava in rassegna tutti i malati di Olgiate, tutti
i pettegolezzi dell’ultimo anno, se invece si trovava a trattare
con normali conoscenti dopo un po’ lasciava questi da soli con
Caino adducendo sempre scuse del tipo “stia pure qui per qualche
minuto con Domenico, non si preoccupi, non disturba, che io ho da
fare in cucina”. Cosicché poteva capitare che qualcuno si trovasse
da solo con il malato. Alcuni pensavano erroneamente che la perdita
della parola si accompagnasse con quella della ragione, invece il
Collima comprendeva tutto, quindi parlavano a ruota libera dicendo
anche quello che avrebbero fatto bene a nascondere. Fu così che
Domenico seppe di essere soprannominato Caino. Infatti, non è raro
che il soprannome, quando è azzeccato ed abbia una valenza
fortemente negativa, sia conosciuto da tutti tranne che dal diretto
interessato. All’inizio Domenico non capiva perché i visitatori
usassero questo termine, poi, uno più sveglio degli altri disse
rivolto al malato “eh Caino, ma lo sai che la Giannina ti cura
proprio bene” e finalmente capì che il Caino era proprio lui. Un
borbottio minaccioso uscì dalla sua bocca, gli astanti naturalmente
non capirono che non fosse contento del nomignolo.
E
venne anche il Moscerino il quale, appena fu lasciato solo dalla
Giannina, non perse l’occasione di dirgli, ridendo, “i soldi non
te li do più, i soldi non te li do più”. Anche Oreste gli fece
visita; aveva chiesto ad Andrea se volesse accompagnarlo ma il
Ganasìn rispose, onorando il soprannome affibbiatogli da Caino, “no,
non vengo, ci odiavamo, contavo i giorni mancanti alla sua pensione,
non ha senso e non tirare in ballo i precetti cristiani, il visitare
gli ammalati ed altre menate, odio c’era, odio rimane”. Oreste si
comportò come sempre si era comportato con Domenico: in modo untuoso
e meschino. Lodò il lavoratore indefesso, il capo premuroso e pieno
di consigli. Quando Giannina lo lasciò solo per correre in cucina,
cambiò tono e disse “hai visto, tutto il tuo lavorare calpestando
le persone a cosa ti ha portato? A guardare il soffitto” e aveva
intenzione di passare agli insulti, a spifferare tutto il
risentimento trattenuto per anni però gli sembrò che lo sguardo
dell’infermo fosse cambiato e gli venne il dubbio che Caino oltre a
capire potesse magari anche guarire ed allora farfugliando un saluto
se ne andò, dimostrando, anche in questa occasione, di essere un
servo.
Tutti
questi incontri furono per Caino una conferma di quello che aveva
sempre pensato: il mondo è marcio ed in lotta contro di lui, lui
Domenico Collima costretto a difendersi per tutta la vita dalla
gentaglia che lo circondava. Mai gli passò per la testa che non
fosse tanto meglio dei personaggi appena citati, mentre gli
rimbombava spesso, nelle lunghe giornate passate a letto, quel
soprannome, quel Caino. Dapprima non gli piacque, poi, rimuginandoci
sopra, giunse alla conclusione che non fosse sbagliato: in effetti,
aveva passato la vita a difendersi dal resto del mondo, da tutti quei
falsi Abele sparsi in ogni angolo. Sì, Caino era il soprannome
giusto e lui l’aveva onorato per tutta la vita. Sempre, tranne che
con quella bagascia con il tacco rotto. Un solo errore, ma pagato a
caro prezzo.